“Prima gli americani”. Ultimi, i destini del pianeta

Tanto tuonò che piovve. È stata ufficializzata poco fa l’assurda decisione dell’amministrazione Trump di recedere dall’Accordo di Parigi sulla lotta ai cambiamenti climatici. Assurda perché mina alle basi il già debole accordo di Parigi, ignora i moniti sempre più allarmanti della comunità scientifica e passa come un rullo sulle speranze dei popoli del mondo. L’inquilino della Casa Bianca più singolare che gli States abbiano mai avuto contribuisce così a scrivere una pagina nera della moderna governance globale.

Le indiscrezioni circolate nei giorni scorsi sono state confermate senza colpi di scena: Donald Trump ha deciso di rinnegare gli impegni presi dagli Usa a Parigi, e lo ha fatto senza neppure interpellare il Congresso. Dopo la mancata ratifica del Protocollo di Kyoto, con il recesso dal quadro di impegni assunti a Parigi gli Usa si confermano una delle bandiere dell’egoismo globale.

La decisione rischia di mettere la pietra tombale su un processo diplomatico pluriennale già in salita e di per se insufficiente a contenere l’aumento di temperatura entro i limiti indicati dalla comunità scientifica internazionale. L’ostacolo reale per una efficace azione globale di contrasto al caos climatico che incalza non riguarda infatti solo Trump, riguarda in generale la sostanziale mancanza di una volontà politica condivisa per agire collettivamente, drasticamente e immediatamente a livello globale.

In questo sguardo poco rassicurante, l’uscita di scena degli Usa è un elemento di grosso peso e desta preoccupazione a tutte le latitudini. Nel 2014 gli Stati Uniti emettevano da soli il 15% delle emissioni globali di gas climalteranti da combustione di fossili e processi industriali, una percentuale importante e seconda soltanto al 30% tondo della Cina.
Secondo Trump gli impegni assunti a Parigi sarebbero “ingiusti” rispetto al lungo periodo di tolleranza concesso alla Cina prima di iniziare a ridurre le emissioni: “l’accordo negoziato da Obama impone target non realistici per gli Stati Uniti nella riduzione delle emissioni, lasciando invece a paesi quali la Cina un lasciapassare per anni”.

La decisione rischia di spingere altri dei 195 paesi firmatari sulla stessa strada. Potrebbero interpretarsi in tal senso le dichiarazioni della Russia, che ha ammesso che “pur dando grande importanza all’accordo, la sua efficacia viene ridotta senza i suoi attori chiave“. Dopo le indiscrezioni dei giorni scorsi la Cina ha invece rinnovato l’impegno a perseguire e rafforzare gli obiettivi dell’accordo di Parigi.

Anche gli altri capi 6 di Stato convenuti al G7 di Taormina avevano tentato di strappare a Trump una dichiarazione congiunta sul clima, conclusasi come è noto con un nulla di fatto. In quella sede, il presidente della Commissione Ue Junker aveva ricordato a Trump che l’Accordo non prevede la possibilità di un “recesso immediato”: secondo le procedure nessun Paese può avanzare richiesta di recesso fino a tre anni dopo l’entrata in vigore dell’accordo.

Certo è che non esistendo strumenti di sanzione, la mancanza della volontà politica di onorare gli impegni presi è di per sé elemento sufficiente ad affermare che gli Usa non intraprenderanno alcuna strada virtuosa in materia energetica o nei trasporti e continueranno a bruciare carbone, petrolio e gas in barba all’accordo e alle previsioni della scienza. Sin dalla campagna elettorale, del resto, Trump si era impegnato a tranquillizzare le lobby dei combustibili fossili, a partire dai produttori di carbone.

L’accordo è pessimo per gli americani, gli Usa escono dall’accordo sul clima e da domani cesseranno l’attuazione degli impegni presi che potrebbero causare la perdita di 2,7 milioni di posti di lavoro. Con questa decisione manteniamo la promessa di mettere i lavoratori americani davanti a tutto” – ha dichiarato Trump di fronte alla stampa di tutto il mondo.

Il problema è non comprendere che in gioco c’è molto di più dei lavoratori americani, c’è il pianeta con tutti i suoi abitanti e l’unica strada efficace per rispondere alla sfida sarebbe quella di abbandonare immediatamente i combustibili fossili, tagliare i sussidi pubblici, convertire il modello produttivo attraverso una transizione giusta per i lavoratori di tutte le nazionalità e indispensabile per l’intero pianeta.

Fonte: www.huffingtonpost.it

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