I profughi sono già cittadini europei

I profughi sono già cittadini europei

di Guido Viale 

Una risorsa democratica. Cittadini di ultima classe, senza alcun diritto, ma abitanti che fanno parte del contesto dove si decide il destino d’Europa. Sono il nucleo portante di quella pacificazione in Asia, Africa, Medio oriente che ha bisogno della base sociale che essi rappresentano. Fuggono da paesi in cui vogliono tornare

L’Europa va rico­struita dalle fon­da­menta, a par­tire dalla ride­fi­ni­zione dei suoi con­fini. L’Europa che c’è ora si sta sfal­dando per­ché inca­pace di fron­teg­giare le tre sfide che i suoi popoli devono affron­tare: la sfida ambien­tale; quella eco­no­mica; e quella dei pro­fu­ghi.

Pro­fu­ghi, non migranti; gente che preme ai con­fini dell’Europa non alla ricerca di una «vita migliore», come negli scorsi decenni, ma per sfug­gire a guerre, stragi, morte per fame e schia­vitù.
L’Europa va rico­struita dalle fon­da­menta, a par­tire dalla ride­fi­ni­zione dei suoi con­fini. L’Europa che c’è ora si sta sfal­dando per­ché inca­pace di fron­teg­giare le tre sfide che i suoi popoli devono affron­tare: la sfida ambien­tale; quella eco­no­mica; e quella dei pro­fu­ghi. Pro­fu­ghi, non migranti; gente che preme ai con­fini dell’Europa non alla ricerca di una “vita migliore”, come negli scorsi decenni, ma per sfug­gire a guerre, stragi, morte per fame e schia­vitù.
Tre crisi inter­con­nesse che richie­dono uno sguardo alto sugli oriz­zonti, senza il quale vien meno ogni ragione di sovrap­porre un’entità regio­nale come l’Europa a quelle di Stati nazio­nali ormai pale­se­mente ina­de­guati. Eppure, nel dibat­tito poli­tico il tema della crisi ambien­tale è ormai affon­dato, som­merso dalle pre­oc­cu­pa­zioni finan­zia­rie; l’economia, che dovrebbe essere scienza del ben ammi­ni­strare la casa comune, si è ridotta a una misera par­tita dop­pia del dare e del pren­dere, dove pren­dere, per chi ha il bastone del comando, ha preso di gran lunga il soprav­vento sul dare. La que­stione dei pro­fu­ghi, finora con­si­de­rata mar­gi­nale (quasi un inci­dente di per­corso) è la più grave e urgente, per­ché rias­sume in sé tutte le altre; ma ridi­se­gnerà i con­fini dell’Europa e le sue fon­da­menta.
Una classe domi­nante tir­chia e vorace cerca di elu­dere i pro­blemi posti dalla crisi ambien­tale glo­bale, dall’“emergenza pro­fu­ghi”, dalle vio­la­zioni quo­ti­diane della dignità umana subite da chi è senza red­dito, senza lavoro, senza casa, senza cure, senza fami­glia o affetti, senza futuro: «non ci sono i soldi», «non c’è più posto», «non ci riguar­dano». Sem­bra quasi che il crollo di Stati e il caos di intere regioni, il pro­trarsi ende­mico di con­flitti inso­ste­ni­bili, o le stesse guerre guer­reg­giate ai suoi bordi — a cui a volte l’Europa prende parte, a volte assi­ste ignava — non la riguar­dino. Men­tre la stanno tra­sci­nando nell’abisso. Un abisso dove si intrav­ve­dono già le prime avvi­sa­glie — ma se ne ascol­tano ormai ad alta voce gli inci­ta­menti — di una poli­tica di ster­mi­nio.
Che dif­fe­renza c’è, infatti, se non in peg­gio, come ha fatto notare Erri De Luca, tra le navi negriere di secoli tra­scorsi e le car­rette del mare che tra­sci­nano a fondo i pro­fu­ghi costretti a salirvi? O, come ha fatto notare Gad Ler­ner, tra i treni piom­bati che por­ta­vano gli ebrei ad Ausch­witz, per tra­sfe­rirli subito nelle camere a gas, e le stive dei bar­coni den­tro cui i pro­fu­ghi, chiusi a chiave, spro­fon­dano in fondo al mare senza nem­meno vedere la luce del sole? I numeri, direte voi. No, quelli ci sono. Sono sei milioni – tanti quanti gli ebrei sop­pressi nei campi di ster­mi­nio nazi­sti – i pro­fu­ghi che affol­lano i campi dei paesi ai bordi del Medi­ter­ra­neo, o che si appre­stano a intra­pren­dere un viag­gio della morte verso le coste euro­pee. E se per loro non sapremo met­tere a punto solu­zioni diverse — per­ché man­cano i soldi, o per­ché non c’è posto, o per­ché scon­vol­ge­reb­bero il non più tanto quieto vivere dei cit­ta­dini euro­pei — la sorte che gli pre­pa­riamo è quella.
Biso­gna esserne con­sa­pe­voli. Che cosa signi­fi­cano infatti le “solu­zioni” pro­spet­tate dai nostri gover­nanti: sia ita­liani che euro­pei? Distrug­gere le car­rette del mare? Ne tro­ve­ranno altre, ancora più costose e insi­cure. Alle­stire campi di rac­colta ai con­fini dei paesi di imbarco? Ma per farne che cosa? Per tra­spor­tare in sicu­rezza i rifu­giati, di lì verso la loro meta? O per affi­dare a dit­ta­ture di ogni genere cen­ti­naia di migliaia di dere­litti senza più diritti, né patria, né nome, che prima o poi ten­te­ranno la fuga o ver­ranno ster­mi­nati? Fare la guerra ai paesi da cui si imbar­cano? Ma non sono state pro­prio quelle guerre a creare un numero così alto di uomini, donne e bam­bini senza più un posto dove vivere? Com­bat­tere e arre­stare gli sca­fi­sti (la solu­zione più ipo­crita di tutte)? Ma sono loro la causa di quei milioni di esseri umani che vogliono rag­giun­gere le coste euro­pee, o è la man­canza di alter­na­tive sicure, messe al bando dall’Europa, a pro­durre e ripro­durre gli sca­fi­sti?
La verità è che quei pro­fu­ghi sono già cit­ta­dini euro­pei. Cit­ta­dini di ultima classe, per­ché non viene rico­no­sciuto loro alcun diritto; ma tut­ta­via abi­tanti che fanno parte del con­te­sto dove si decide il destino dell’Europa. Pro­prio per que­sto i paesi da cui fug­gono sono già parte inte­grante del suolo euro­peo. Ma, a dif­fe­renza dei migranti degli scorsi decenni quei pro­fu­ghi non ten­tano la tra­ver­sata del Medi­ter­ra­neo, o lo sca­val­ca­mento dei con­fini orien­tali, per tra­sfe­rirsi in Europa per sem­pre; in gran parte sono pronti a tor­nare nei loro paesi non appena la situa­zione lo per­met­tesse. Quella situa­zione è la paci­fi­ca­zione e la rina­scita di quei ter­ri­tori: cose che non si otten­gono con la guerra, né con una diplo­ma­zia che finge di trat­tare con quelle stesse fazioni che ha armato; o che con­ti­nuano ad essere armate da gio­chi e trian­go­la­zioni su cui ha sem­pre meno con­trollo.
Quella paci­fi­ca­zione, in Asia, Africa, Medio Oriente, ha biso­gno di una base sociale solida. E quella base sociale, in potenza, c’è. Il nucleo por­tante potreb­bero essere pro­prio quei pro­fu­ghi che hanno rag­giunto o che cer­cano di rag­giun­gere il suolo euro­peo; i legami che li uni­scono sia a parenti e comu­nità già inse­diate in Europa, sia a coloro che sono rima­sti, o non sono riu­sciti a fug­gire dai loro paesi. Ma a quella mol­ti­tu­dine dispersa e dispa­rata (i flussi) occorre rico­no­scere la dignità di per­sone. Aiu­tan­dole innan­zi­tutto a rag­giun­gere in sicu­rezza la meta; ma anche, una volta qui, per­met­ten­dole di siste­marsi, sep­pure in modo prov­vi­so­rio, in con­di­zioni digni­tose: in case che non siano insa­lu­bri rico­veri ille­gali; pos­si­bil­mente dif­fuse sul ter­ri­to­rio sia per non gra­vare su sin­goli abi­tati votati al degrado, sia per faci­li­tare rap­porti di buon vici­nato con i locali. Con un lavoro, anche par­ziale, a par­tire dalla gestione e dalla siste­ma­zione fisica degli ambienti in cui devono tra­scor­rere una parte della loro vita: tra loro ci sono mura­tori, fab­bri, fale­gnami, elet­tri­ci­sti, agri­col­tori; ma anche mae­stri, con­ta­bili, infor­ma­tici, inge­gneri, medici infer­mieri; per­ché mai atti­vità che, ade­gua­ta­mente soste­nute, pos­sono fare loro, ven­gono invece affi­date a coo­pe­ra­tive che li sfrut­tano e costano il tri­plo? Ma, soprat­tutto, occorre faci­li­tar loro la pos­si­bi­lità di incon­trarsi, di met­tersi in rete, di eleg­gere i loro rap­pre­sen­tanti, di farsi comu­nità sociale e poli­tica, di met­tere a punto stra­te­gie per il loro ritorno.
Ma come si può anche solo pro­porre obiet­tivi del genere in paesi dove la disoc­cu­pa­zione è alle stelle e casa, red­dito e lavoro man­cano anche a tanti euro­pei? Non si può. A meno di per­se­guire per tutti, cit­ta­dini euro­pei e stra­nieri, degli stan­dard minimi di red­dito, di abi­ta­zione, di lavoro (pro­mosso o creato diret­ta­mente o indi­ret­ta­mente dai poteri pub­blici), di istru­zione, di assi­stenza sani­ta­ria. L’essenza stessa di un pro­gramma radi­cal­mente alter­na­tivo a quello per­se­guito dall’attuale gover­nance euro­pea con le poli­ti­che di auste­rità. Ma l’unico capace di affron­tare l’ondata del raz­zi­smo e della xeno­fo­bia ali­men­tata dagli impren­di­tori poli­tici della paura di destra e sini­stra. E l’unico per for­nire una road map alla rifon­da­zione radi­cale dell’Europa; a par­tire dal rico­no­sci­mento dei suoi con­fini di fatto e di quei diritti senza i quali la pre­tesa di tener uniti i suoi popoli non ha alcun fon­da­mento.
Uto­pia? Certo. Ma qual è l’alternativa? Il castello dell’euro, e quello dell’Unione, e la falsa imma­gine di un con­ti­nente oasi di pace dopo la seconda guerra mon­diale non resi­ste­ranno a lungo se non si lavora fin d’ora per inver­tire rotta. E la nuova rotta è que­sta: insieme ai nostri fra­telli e sorelle che fug­gendo dalle guerre ci por­tano, con la loro stessa vicenda esi­sten­ziale, un mes­sag­gio di pace.

 

Il Manifesto, 23 aprile 2015

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