venerdì, Aprile 19, 2024
Notizie dal Cipsi 1servizio civile

Servizio Civile Nazionale, progetto in Senegal: vi presentiamo le nostre volontarie

Cecilia, Giada, Floriana e Martina stanno per partire per il Senegal. Sono state selezionate per il progetto CIPSI “Empowerment delle donne a Pikine Est” che richiederà loro di divenire parte attiva nella costruzione di un’autonomia socio-economica delle donne senegalesi della periferia di Dakar. La valigia è fatta, tanto entusiasmo fa brillare i loro occhi, tutto è pronto. Prima di lasciarle partire però, abbiamo voluto conoscerle un po’ meglio, intervistandole.

 

 

Giada Cicognola, intervistata da Federica Farano:

Alla scoperta dell’altra metà del cielo

Titolo ispirato al libro “Metà del cielo. L’oppressione delle donne è la piaga del nostro secolo e la loro liberazione può cambiare il mondo” di Sheryl Wudunn e Nicholas D. Kristof. Libro che è stato di grande ispirazione per Giada per capire cosa volesse fare nella sua vita e chi volesse diventare.

“Mi sentivo ipocrita a continuare a parlare di cooperazione e di sviluppo senza averli mai realmente capiti e affrontati”

Con una valigia carica di determinazione, ansia, paure ma soprattutto tanta voglia di fare, Giada, 27 anni di Perugia, è pronta ad affrontare il suo anno di Servizio Civile in Senegal. La giovane donna che ho di fronte ha un grande bagaglio di esperienze professionali e di studi alle spalle. Ma non le basta. Ora vuole sperimentare sulla sua pelle cosa vuol dire fare cooperazione. In quest’intervista mi parla delle sue aspettative.

-Parlami di te, so che sei stata a Londra fino alla settimana scorsa!

Si, esatto. Ho sempre avuto il pallino del muovermi costantemente, a partire dall’Erasmus che ho fatto il secondo anno di università. Ha rappresentato per me la scelta più azzeccata che potessi fare per capire chi fossi e cosa sarei potuta essere. Da lì, un Master in Sviluppo a Edimburgo, secondo me troppo teorico. Dopo un primo stage a Bruxelles di 4 mesi, per un paio di anni ho lavorato con l’organizzazione “The One campaign”, prima a Bruxelles e poi a Londra. Anche in questo caso, però, c’era molto lavoro teorico di sensibilizzazione e di pressione sulle istituzioni, ma niente sul piano della progettualità. Mi sentivo ipocrita a continuare a parlare di cooperazione e sviluppo di queste persone povere senza averli mai realmente capiti e affrontati. Devo dire grazie anche al libro “Metà del cielo”, letto dopo la triennale. Parla della condizione delle donne e bambine che vivono in luoghi disagiati e non. Dal momento in cui l’ho letto, ho capito che dovevo fare qualcosa per provare a risolvere questa situazione di disparità inaccettabile.

-Come mai proprio il CIPSI?

Mi piace il loro modo di lavorare, come hanno svolto le campagne in passato e l’apertura al dialogo. Ho guardato soprattutto al progetto, ed in particolare i beneficiari cui il progetto è indirizzato.

-Vorresti rimanere lì in Senegal?

Dipende da tante cose. Mi sono posta l’obiettivo di capire molto presto se è un qualcosa che mi piace perché ho sempre visto la cooperazione dall’altra parte. É ancora un’incognita ma non credo che si concluda qui perché penso che un anno sia troppo poco.

-Quindi immagino niente più Italia. Scappi via. Troppo piccola per te?

No, il problema non è l’Italia ma le persone che vi abitano. Ho problemi a confrontarmi con chi ha una chiusura mentale e si basa solo su stereotipi. Al momento credo di poter dare di più fuori, ma non escludo un ritorno. Credo che ci sia un forte bisogno di cambiare la mentalità di questo paese. Si deve uscire dalla bolla di egocentrismo ed egoismo in cui siamo entrati e capire che quello che accade a migliaia di chilometri di distanza in qualche modo riguarda anche noi. Ci deve essere un’apertura che cominci dai bambini, l’età più tenera in cui si formano tutte le concezioni del mondo. C’è tanto lavoro da fare, ma il potenziale c’è e sono molto speranzosa.

-Ti è mai capitato che qualcuno ti dicesse “che ci vai a fare lì”?

Si, praticamente fino alla settimana scorsa. Frasi del tipo “Tu però non cercare di cambiare troppo le cose… é inutile, tanto non cambierà niente” o ancora “si ma la povertà c’è anche in Italia, che ci vai a fare lì”. Proprio per questo, devo anche fare un lavoro su me stessa, sul rispondere a tono e far capire che la povertà di cui parliamo è in un contesto diverso rispetto al nostro. È un qualcosa in cui ci credo veramente, quindi vado avanti.

-Chi o cosa ti porti in Senegal nella valigetta del tuo cuore?

Sicuramente le persone conosciute nelle mie esperienze all’estero, con le quali condivido molte idee e che mi hanno sempre supportato. Porto anche questa voglia di fare che mi trascino dietro da molto tempo, ma anche la paura che non sia come mi aspetto e che l’idea che mi sono costruita sia errata. Comunque vada, sono sicura che tra un anno sarò una Giada diversa, più consapevole di quello che posso realmente fare e dare e con una valigia del cuore molto più piena, in un modo o nell’altro.

-Credi che in concreto potrai apportare migliorie?

Non sono nessuno per dire se posso fare la differenza ma la speranza è che sì, ci sia! Credo che molto dipenda dalla permanenza in Senegal una volta concluso il progetto. Come ci hanno detto in questi giorni, siamo un filo, una perla di una lunga collana, siamo collegati a chi c’è stato prima ma anche a chi prenderà il nostro posto il prossimo anno. Spero però di poter trasmettere alcune mie competenze tecniche ma soprattutto un’eredità di valori che queste donne si porteranno dietro. Competenze e valori che darà loro la forza di uscire da una situazione estremamente difficile. Non so come sarà Giada il 20 settembre del 2018 ma sarà molto interessante confrontare le aspettative che avevo con quello che ho raggiunto.

-Ti vedo molto carica, con una bella valigia. Ti faccio un grosso in bocca a lupo.

Grazie, crepi. Sì, la valigia è molto pesante, in tutti i sensi! Spero che sarà ancora più pesante o che sarà vuota o semivuota al mio ritorno ma con le cose giuste dentro… quelle chiave.

 

Floriana Pizzo, intervistata da Gabriele Pinardi:

Dialogo con Floriana, giovane viaggiatrice

Il cammino infinito

“Esiste sempre un punto d’incontro. Fra tutti noi. Esiste ed è la cosa che cerco di più. Nei miei viaggi e nelle mie esperienze. Bisogna sempre cercare cosa ci accomuna all’altro, anche solo uno sguardo o un sorriso.” E’ su un vecchio balcone, con una ringhiera arrugginita, che mi vengono dette queste parole.

Floriana sta per partire. Gli occhi quasi lucidi di chi non riesce più a trattenersi dalla gioia: ormai il Senegal è vicino. Ancora poche scintille di sole e poi via da qui. Per un anno, o forse più, in una terra che l’aspetta da quando i suoi occhi si sono posati sulla possibilità di partire. Lo sguardo è già rivolto verso sud, ha superato tutti i confini. Mi parla. E’ entusiasta. E’ piena di prospettive; nulla può trattenerla ormai.

Nacque venticinque anni fa a Desenzano sul Garda, un paese che si specchia su acque di cristallo. Ma è rinata molte volte. A Città del Messico, in Bolivia o vagabondando per l’America Latina. In ogni suo viaggio, in ogni terra che ha calpestato, ogni volta che ha guardato l’orizzonte e un sorriso le è comparso sul viso. Le prime domande che le pongo sono scontate; non certo ciò che si vuole sentir chiedere una ragazza “zaino in spalla”. Dopo aver liquidato velocemente le questioni sugli studi che ha compiuto e sulla formazione appena passata, mi sblocco.

Il Senegal è la meta giusta? chiedo ancora un po’ impacciato

La risposta non si fa attendere: “Ti confesso che è stato difficile scegliere. Ero attratta anche da un progetto che si sarebbe svolto in Ecuador. Dopo averla visitata l’idea era di tornare lì: in Sudamerica. Ma riflettendoci bene ho poi realizzato che il meglio per me sarebbe stato ricominciare una vera e nuova avventura. Un nuovo paese, un nuovo continente, un mondo del tutto diverso da ciò che già conosco.”

Ti ritieni una persona a cui piace scoprire delle nuove culture, quindi?

“Si,” risponde veloce. “Ma non solo. Mi piace viverci dentro queste culture, prendere atto delle varie differenze. Ma ciò che mi spinge veramente  è scoprire quali sono i punti d’incontro. Nonostante le diversità culturali che ho vissuto, ho sempre cercato i fattori che accomunano me con delle realtà distanti chilometri e chilometri.”

A quel punto la domanda nasce da sola. Forse è proprio quell’entusiasmo travolgente a proporla sottovoce al mio cervello.

Quali sono le cose che più ti hanno unito alle realtà che hai vissuto?

Il sorriso disegnato su quei volti. L’apertura che hanno mostrato nei miei confronti. Quella gentilezza così spontanea che mi ha rapito. La stessa che ritrovo in vecchi ricordi sparsi della mia vita. Quei sorrisi, quei modi di fare così accoglienti non conoscono razzismo, né odio, né frontiere.

Riesco quasi a vederli anche io quei volti. Le parole che pronuncia creano in me una memoria che non esiste; vedo quei sorrisi di cui parla, di quelle culture così lontane da me. Eppure sembrano realmente a pochi passi di distanza.

Sei una donna che ha viaggiato molto. Per te cos’è ‘casa’?

Lei ci pensa un po’ su. Guarda il cielo che si intravede fra i palazzi che ci stanno di fronte, quasi stesse cercando lì la risposta al mio quesito.

“Dopo aver vissuto un anno in Messico” mi racconta, con un tono quasi confidenziale “tornare a vivere a Desenzano mi ha un po’ stravolto. Anche se sono convenzionalmente abituata a pensare a ‘casa’ come un posto fisico, ti rispondo che io ‘casa’ l’ho trovata in ognuna delle persone che ho incontrato. In ognuno c’è qualcosa di casa mia.

Dopo avermi dato questa risposta, torna con lo sguardo su quella fetta di cielo. Sembra stia cercando la sua destinazione. Sa di per certo che quel cielo, fra qualche giorno, le sembrerà diverso. Magari un po’ più di azzurro apparirà sulla schiena dell’orizzonte africano che si scorge dalla periferia di Dakar. O magari del bianco opaco, composto da granelli di sabbia e chissà che altro, si poserà al centro dell’occhio sperduto in quel chiarore.

“Ti faccio l’ultima domanda” le dico a voce bassa, per paura di spezzare i suoi pensieri. Come si può conciliare uno spirito come il tuo, così intercontinentale ed interculturale, con la situazione politica italiana attuale che è diametralmente diversa?

Questo è un po’ il mio dilemma. Mi dice sorridendo. Partire o restare? Sembra proprio che oggi l’Italia abbia bisogno di persone che hanno avuto contatti diretti con altre culture. Per ora non ho ancora deciso quale sarà la mia strada; il Senegal mi aiuterà a capire. L’Italia deve ripensare ai propri modelli di accoglienza, di gestione dei flussi migratori. Per questo mi chiedo: sono più utile qui o altrove?L’importante credo sia fare sempre il meglio per dare tutto ciò che si può agli alti. Cercare di aiutarli e in quel modo essere aiutati a nostra volta. Spero questo possa bastare per vivere bene.

Dopo l’ennesima risposta spiazzante, la mia bocca accenna ad un sorriso, che tento di nascondere per non creare fraintendimenti. Ma è un sorriso nuovo. Un sorriso legato ad una consapevolezza: non è ancora detta l’ultima parola. No. Forse c’è ancora una speranza per rimescolare le carte di questo assurdo gioco. Forse non siamo destinati a nuove guerre, divisioni o altri mezzi brutali di risoluzione. C’è ancora qualcosa che si può fare per evitare il disastro: regalare un sorriso; partire per tanto tempo; tornare con mille cose da raccontare ed altre mille da voler scoprire.

Ora la testa è pronta. Presto lo sarà anche il bagaglio. Andare via è un ottimo modo per cercare ‘casa’…

 

Martina Pierobon, intervistata da Francesca Cassaro:

Martina, dal Piemonte al Senegal, passando per Nizza

  -La storia di una giovane donna che, con sincerità e curiosità, ci racconta del suo mondo-

Non è la prima volta che incontro Martina, ma è come se lo fosse. Subito rimango colpita dal suo modo di fare. Sorride ed è sicura di sé, non nasconde il suo accento piemontese mentre mi racconta dei suoi viaggi.

Attorno a noi Roma sembra tacere per un po’, forse solo per il tempo del caffè che avremmo potuto bere al bar qui sotto. Non molto insomma, ma abbastanza per capire che Martina è mossa da una scintilla dentro di sé che tra poco la farà volare in Africa.

«Cos’hai studiato in Piemonte?»

«Ho studiato Giurisprudenza e sono rimasta lì fino ai 23 anni, poi ho vinto una borsa di studio nell’ambito del progetto “doppia laurea”, un interscambio tra l’università di Torino e quella di Nizza, quindi sono partita per la Francia».

«Quanto sei stata a Nizza?»

«Lì sono stata un anno. Il progetto, originariamente, era di nove mesi ma essendomi trovata molto bene ho deciso di trascorrerci anche l’estate e così sono tornata ad ottobre.

Ho dovuto trovare lavoro per mantenermi; sono stata assunta in un ristorante italiano. Con me lavorava anche Yarina, una delle persone più importanti della mia vita ora. A dir la verità Con tutti i colleghi si è instaurato un legame molto forte».

«Sei tornata ancora lì dove lavoravi?»

«Sì, mi ero trovata talmente bene che ci sono tornata per i due anni successivi. Quindi ho fatto tre stagioni consecutive».

«Dunque, Nizza è molto importante per te!»

«Sì e questo ristorante è un po’ la mia casa».

«Durante questa esperienza hai conosciuto persone provenienti da altre parti del mondo?»

«La cosa che secondo me ha dato valore alla mia esperienza a Nizza è stata che ho vissuto sempre con ragazzi del posto. Questo mi ha dato la possibilità di conoscere la vita come è davvero lì. Mi sentivo una di loro».

«E’ stato difficile tornare per te, vero?»

«E’ stato difficile, sì. Sono tornata in Piemonte a 24 anni ma regolarmente scappavo via».

«Sei tornata e hai continuato a studiare giurisprudenza?»

«Sì. Ora sto scrivendo la tesi».

«Su cosa la scrivi?»

«La tesi riguarda il diritto internazionale e verte sulla prevenzione della tortura. Si basa sull’applicazione del protocollo opzionale delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene e trattamenti inumani degradanti».

«Lo spirito internazionale, dunque, caratterizza anche i tuoi studi…»

«Sì. Sotto sotto sono sempre stata attratta dalla dimensione internazionale, già in Italia, prima di andare in Francia. La mia materia preferita, nei primi anni di studio, era il diritto internazionale, come anche quello europeo; mi appassionavano moltissimo. Gli esami a scelta del mio curriculum ricadevano sempre in questi campi. Non ho mai pensato, però, di essere in grado fino in fondo. Ho sempre visto l’ambito internazionale come un qualcosa di inaccessibile, bisognava avere molte conoscenze. Temevo di non avere le competenze adeguate. Anzi, ai miei occhi, il non avere competenze era un dato di fatto. La mia paura più grande era di non poterle acquisire. Solo prendendo coraggio e facendo domanda al progetto per andare a Nizza, che comunque era un ambiente pseudo familiare, ho capito che avrei potuto effettivamente divenire parte di questo mondo».

«In Piemonte, nel tuo territorio, come hai manifestato questa tua indole internazionale?»

«Non sono una persona politicamente attiva e, tantomeno, frequento conferenze o simili. Ad ogni modo, dopo essere stata in Francia, non riuscivo a concentrami sui miei studi e tornavo spesso a Nizza. Fare la cameriera è un lavoro che mi piace molto e mi riesce bene. Ho lavorato anche per ristoranti importanti. Quindi, mi sono trovata davanti ad una scelta: studiare e lavorare a questo livello non sono due cose conciliabili. Alla soglia dei 27 anni mi sono guardata dentro e mi sono chiesta cosa volessi fare davvero della mia vita. O investivo su questo lavoro, magari facendo corsi specializzanti, per poi lavorare in ambienti di lusso, o decidevo di abbandonare questo porto sicuro. Ho deciso di credere in me stessa e nelle mie potenzialità. Quindi ho cercato uno stage che mi permettesse di aprirmi maggiormente alla dimensione internazionale. Proprio vicino a casa mia, in un paesino minuscolo, ci sono dei Cas, centri di accoglienza straordinari. Ce ne sono tantissimi e ciò che mi stupisce è che sono in zone deserte e nascosti alla vista dei più. Forse è il modo più semplice per gestirli, lontani dalle persone del luogo che non li vogliono».

«Come sei venuta a conoscenza di questo centro?»

« Grazie a delle conoscenze. E con questo non intendo dire che sono stata raccomandata. Anzi, le conoscenze di cui ti parlo sono conoscenze semplici, da paese. Questi ambienti, essendo anche nascosti, non sono sotto gli occhi di tutti. Se qualcuno non ti ci introduce, non li scopri. Pensa, è stata la mia parrucchiera a dirmelo».

«Lì che ruolo svolgevi?»

«I Cas sono obbligati a fornire agli immigrati vitto, alloggio, servizio sanitario e insegnamento dell’italiano. Il resto è svolto da volontari. Quello che serviva, quando sono arrivata io, era qualcuno che raccogliesse le loro storie. Poi vi era bisogno di verificarle e questo facevo. Quando queste persone arrivano sono in attesa del vaglio della commissione che deciderà se dar loro o meno il diritto d’asilo. Loro raccontano la loro storia e, come in qualsiasi processo, vi è necessità di prove per testimoniarne la veridicità. Serviva chi facesse ricerche su ciò che raccontavano. Ad esempio, dovevo capire se effettivamente nel dipartimento di Difa in Niger ci fossero stati attacchi di Boko Haram. Mi ritrovavo quindi a cercare articoli di giornale o report dell’Onu che supportassero le narrazioni».

«Sicuramente è stato un lavoro interessante per te… »

«Interessantissimo, sì. Ci voleva molto tempo perché è un’attività complicata, spesso queste informazioni non ci sono, tranne casi rarissimi. Dovevo, contemporaneamente, formarmi e informarmi, facevo sempre ricerche per scoprire cose che non sapevo».

«Quando hai finito questo stage?»

«Ho consegnato le ultime carte una settimana prima di partire per Roma, per ricevere la formazione del servizio civile».

«In tutto ciò, come si inserisce la tua decisione di fare domanda per il servizio civile in Senegal?»

«A marzo ho avuto modo di partecipare alla conferenza del viceministro delle politiche estere riguardante la cooperazione internazionale. Essendo il mio percorso rivolto a studenti che desiderano diventare magistrati, avvocati o notai, io dovevo differenziarmi. Il primo passo è stata la doppia laurea, in Francia e in Italia, e ora avevo bisogno di qualcos’altro. All’inizio del mio percorso universitario io volevo diventare avvocato poi seguendo il corso della mia vita ho compreso che volevo fare altro.

Scrivendo la tesi ho capito che sono una persona pragmatica. Non mi piace parlare del diritto come un qualcosa di distaccato dalla persona, come se fosse una realtà a sé stante. Non voglio solo parlare, voglio utilizzare la legge per aiutare la persona. Ho bisogno del contatto umano, magari in un centro di accoglienza. Io voglio partecipare e costruire un qualcosa».

«E, dunque, adesso il Senegal come lo vedi?»

«Il progetto del Senegal l’ho scelto perché già prima guardavo in questa direzione. Volevo laurearmi per poi partire ed essere volontaria per alcuni mesi in Africa. Poi sapevo che se mi fossi fermata in Italia avrei voluto fare praticantato per un’associazione che lavora con donne maltrattate. Quando ho letto il progetto del Senegal ho pensato che unisse questi miei due desideri. Non credevo d’aver la possibilità d’essere presa. Poi, sai cosa mi sono detta? “Se devo sparare, sparo in alto!” E ce l’ho fatta…».

Cecilia Passaniti, intervistata da Simone Bosco:      DA INSERIRE

 

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