Senegal: il coraggio di restare. PONTI…
Giada Cicognola, volontaria del CIPSI in Servizio Civile in Senegal, ha incontrato Ibrahima Gueye, migrante di ritorno. “Ero diventato un venditore ambulante, marciando di giorno sulle spiagge e fuggendo di notte dalla polizia”, le racconta durante l’intervista. “Ero davvero stanco. Nessuna terra promessa: il futuro è in Senegal. Con il progetto ‘PONTI’ spero di vedere aumentare il benessere delle famiglie di Pikine Est. E contrastare anche la fuga dei giovani: formando le donne in attività generatrici di reddito si può contribuire a spezzare il circolo di povertà. Vedo nascere qui imprese sviluppate da giovani. Mi motiva il far sapere ai nostri giovani che possono restare nel loro paese e sviluppare la loro comunità”. L’intervista è stata pubblicata in “Solidarietà internazionale” (n.1/2018), la rivista bimestrale edita dal CIPSI che raccoglie voci e racconta storie da ogni angolo del mondo.
È andato, è tornato. E dice ai giovani senegalesi: “Non partite, l’Europa non è l’El Dorado, e insieme possiamo costruire qualcosa di duraturo qui”. Ibrahima Gueye, detto Ibu, ha 55 anni ed energia da vendere. Ti accoglie con un grande sorriso e si percepisce dalla sua voce calma e sicura l’ottimismo che lo guida nel suo ruolo all’interno del progetto ‘PONTI, Inclusione sociale ed economica, giovani e donne, innovazione e diaspore’ realizzato dal Cipsi in Senegal con altre associazioni, e come capofila Arcs, e cofinanziato dal Ministero dell’Interno italiano. Allo sportello informativo di Pikine Est, nel mettere in guardia i giovani sui rischi della migrazione irregolare, e nel supportare la loro inclusione socio-economica, Ibu porta la sua expertise decennale nell’orientamento professionale, ma soprattutto quello che ha visto e vissuto durante i cinque anni passati in Europa tra Italia, Belgio e Lussemburgo.
Ibu, raccontaci la tua esperienza di migrante di ritorno.
Qui in Senegal la situazione è molto difficile, ho pensato di trovare facilmente lavoro una volta in Europa. Ma sono partito solo con un diploma di scuola superiore, senza qualifiche professionali, lo stesso mercato del lavoro europeo è saturo e mi sono convinto di dover ritornare. Mi sono spostato tra vari paesi, cercando opportunità dopo opportunità. Alla fine ero diventato un venditore ambulante, marciando di giorno sulle spiagge e fuggendo di notte dalla polizia. Ero davvero stanco.
Grazie al tempo passato in Europa so bene che lì senza una qualifica professionale trovare lavoro non è facile, e ho capito che qui in Senegal ce la possiamo fare. Io sono tornato perchè non ho trovato quello che cercavo. Sono tornato e mi sono formato, voglio mostrare a questi giovani che ci si può realizzare anche in questo paese senza andare in Europa.
Nella periferia di Dakar per ogni famiglia ci sono almeno uno o due migranti. Partono e tentano di resistere il più a lungo possibile, anche se Ibu sa quanto sia difficile. Ma riuscire ad inviare a casa anche solo 100.000 franchi al mese (circa 150 euro) significa fare la differenza per la propria famiglia.
Qui non avevo nulla da fare, alcuni miei fratelli erano partiti e mi sono detto ‘devo partire anche io’. Mia madre si è impegnata per trovare i soldi per il mio biglietto aereo prendendoli in prestito dall’associazione di donne di cui fa parte. Qui sono le mamme che si danno da fare per risparmiare e dare ai figli la possibilità di partire, sono loro che ci spingono. Puntano il dito a chi torna, e incitano i figli ‘vedi quel ragazzo? Ha riportato un’auto. Devi partire anche tu!’. Ma non hanno ben chiare le difficoltà della migrazione irregolare.
Quando sei partito avevi 30 anni. Oggi, a oltre 20 anni di distanza, cosa pensi sia cambiato, nella tua vita e nel tuo paese?
Per me è cambiato molto, a livello umano ed economico percepisco davvero un progresso, mi ripeto sempre ‘Alhamdulillah’, grazie a Dio. Ma in Senegal non ho visto molti cambiamenti, nè nel modo di pensare delle persone nè nelle infrastrutture. I politici si riempiono la bocca di belle parole, ma davvero non c’è connessione con i problemi della gente. Fin tanto che lo Stato non svilupperà delle strategie per l’impiego dei giovani, loro continueranno a partire. L’uomo è per natura nomade, non lo si può obbligare a restare fermo.
Cosa si fa con il progetto ‘PONTI’?
Spero di vedere aumentare il benessere delle famiglie di Pikine Est, e di riflesso contrastare anche la fuga dei giovani: formando le donne in attività generatrici di reddito si può contribuire a spezzare il circolo di povertà. Con una nuova entrata in ogni famiglia ci sarà meno bisogno di spingere i ragazzi a partire per incrementare le finanze domestiche. A quel punto starà a loro impegnarsi per il proprio futuro, senza la pressione di sostenere la famiglia. Alla base di tutto c’è un problema fondamentale in Senegal: la scarsa offerta di lavoro e la mancanza di qualifiche specifiche per i giovani.
È inutile partire senza una professione, l’ho potuto constatare in Europa. Come dicono in inglese, What can you do? Cosa puoi fare? Se non hai nulla da offrire, come ti possiamo impiegare? Il progetto PONTI è fantastico perchè può aiutare i giovani ad avere un mestiere. Se d’altra parte non ci sono imprese che assumono, allora si dovrebbe potenziare l’autoimpiego, sostenere i giovani nello sviluppo di propri progetti imprenditoriali in settori in forte crescita, come l’agroalimentare, l’apicoltura, l’allevamento.
Quali sono le tue speranze per il futuro?
Gli sportelli ‘PONTI’ sono un prezioso strumento di orientamento per i nostri ragazzi: oggi è venuto un giovane con l’idea di aprire un’azienda agricola. Lo aiuteremo a sviluppare un business plan, a trovare dei finanziamenti ed entrare in contatto con agenzie specializzate che possano seguire la sua idea. Sarebbe utilissimo se, dopo il lancio dei primi sportelli pilota, se ne aprissero molti altri per ampliare il loro raggio e permettere ad ancora più giovani di scoprire quali sono le opportunità a loro disposizione per non partire.
Vorrei vedere ancora più corsi di formazione, magari con un aiuto per chi si sarà appena formato, nel riunirsi in gruppi di interesse economico. Con cooperative o imprese solidali in cui possano applicare le capacità acquisite, superando l’ostacolo di lanciarsi nel mercato da soli. E poi certamente continuare con le attività di sensibilizzazione itinerante sui rischi della migrazione irregolare, che i miei colleghi stanno già facendo su campo. È davvero importante portare queste informazioni in periferia, mostrare cosa significa mettersi in viaggio per canali irregolari, approdando in Europa in maniera illegale e spesso senza alcuna qualifica. Noi stessi migranti di ritorno abbiamo un ruolo cardine: raccontare la nostra storia, non solo i successi ma anche le difficoltà. Quando la gente capisce davvero che l’Europa non è la terra promessa, che ci sono problemi economici anche lì, allora è molto più probabile che restino e si diano da fare qui.
Quale sarà il tuo impegno?
La mia soddisfazione più grande sarebbe di vedere nascere qui imprese sviluppate da giovani, che diventeranno un punto di riferimento per altri e un’ispirazione a restare. Mi motiva il far sapere ai nostri giovani che possono restare nel loro paese e sviluppare la loro comunità. Anche se non hanno ancora delle risorse economiche, hanno intellettuali – e aiutandoli a trovare i mezzi giusti, ognuno apportando la propria pietra, possiamo davvero far nascere qualcosa. I giovani non vengono motivati solo dall’avere un salario, ma dal vedere che altri ce la fanno, che possono contribuire allo sviluppo del loro quartiere. ‘On est ensemble’, è insieme, come diciamo sempre in Senegal, che potremo costruire qualcosa.
Inclusione sociale ed economica, giovani e donne, innovazione e diaspore
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