Ponti in Senegal: c’è anche un’alternativa alla partenza
Progetto PONTI: c’è anche un’alternativa alla partenza
Giada Cicognola, volontaria CIPSI in Servizio Civile a Pikine Est (Senegal), ha incontrato Assane Samb, operatore di uno degli sportelli di informazione e orientamento del progetto PONTI, per la lotta all’emigrazione irregolare e l’inclusione sociale ed economica di giovani e donne senegalesi ed etiopi. “Resto per lo stesso motivo per cui tanti miei coetanei partono per mare e per terra alla volta dell’Europa“. Le racconta. “Io ho presto capito che non volevo percorrere questa strada pericolosa“.
L’articolo è stato pubblicato nella rivista bimestrale del CIPSI “Solidarietà Internazionale” n.2/2018. Vuoi leggere l’intervista e tanti altri articoli interessanti? Abbonati! Scrivi a cipsi@cipsi.it per avere maggiori informazioni.
A seguire il testo.
Intervista ad Assane Samb, operatore di uno degli sportelli di informazione e orientamento del progetto “Ponti”, per la lotta all’emigrazione irregolare e l’inclusione sociale ed economica di giovani e donne in Senegal ed Etiopia. “Resto per lo stesso motivo per cui tanti miei coetanei partono per mare e per terra alla volta dell’Europa. Ho presto capito però che non volevo percorrere questa strada pericolosa”.
Pikine – Assane Samb, trent’anni, nato a Dakar ma cresciuto nella ‘banlieue’ di Pikine, la periferia della capitale senegalese. Lo incontro nella sede dello sportello informativo di Pikine Est, ha appena finito il suo turno e cominciamo a parlare della sua storia. Auricolari bianchi appoggiati sul collo, immancabili per ogni giovane senegalese che si rispetti, mi racconta la sua esperienza a due mesi dall’inizio del progetto “Ponti”, co-finanziato dal Ministero degli Interni italiano e implementato in Africa da un consorzio di oltre 20 ong, tra cui la capofila Arcs e il Cipsi.
Assane, perchè sei entrato a far parte di questo progetto?
Come tutti i giovani ho delle ambizioni per riuscire nella vita. È lo stesso motivo per cui tanti miei coetanei partono per mare e per terra alla volta dell’Europa. Ho presto capito però che non volevo percorrere questa strada pericolosa, e fare parte del progetto PONTI è un’ottima opportunità. Per me un progetto come questo ha molto più valore del semplice salario che mi fa percepire. Aiutare a cambiare la vita di ragazzi come me, supportare anche un solo giovane a rimanere in Senegal e trovare un impiego, aiutarne un altro a preparare un curriculum ed essere assunto, questo non ha prezzo.
Questo è un progetto eccellente, con cui possiamo aiutare molti dei nostri fratelli a “dimenticare la voglia di partire” offrendo delle alternative reali per rimanere in Senegal. Qui abbiamo voglia di fare, manca solo la possibilità di realizzarci davvero. Non abbiamo più bisogno di parole, ma di qualcosa di concreto. Non puoi dire ad un ragazzo solamente ‘non partire’ senza fornire una vera alternativa nella terra in cui è nato. Questo progetto va oltre, offrendo una formazione e poi un accompagnamento nell’iniziare. Ora ci sono tantissimi giovani che finiscono le scuole e non sanno cosa fare, trovano solo brevissimi contratti, rimangono anche due anni in questa condizione. Ovviamente cercheranno in tutti i modi di uscire dal paese. Se hai qualcosa in mano qui, un futuro, non penseresti certo di intraprendere un viaggio pericoloso ed illegale.
Quale è la preoccupazione più grande tra i tuoi coetanei?
Sicuramente preoccupa la mancanza di lavoro. I giovani hanno competenze ma non sanno come applicarle. Le famiglie non possono permettersi di investire in nuovi progetti e le imprese non assumono più. La sensazione è che qui in Senegal nulla cambi. Un mio amico, tornato dopo dieci anni trascorsi in Francia, mi ha detto proprio così. Nulla cambia in questo paese, al contrario, peggiora. Il Senegal può anche avanzare da alcuni punti di vista, ma nulla si muove quando parliamo della preoccupazione principale della gente comune: il lavoro. I giovani hanno bisogno di concretezza. Certo, ci sono altri problemi, come la sanità o l’istruzione, che hanno bisogno di soluzioni strutturali dall’alto, ma per aumentare l’occupazione un progetto come PONTI può essere parte della soluzione.
Se nulla cambia e il lavoro non c’è, partire è allora giustificato?
Tutti sanno che partire è pericoloso. Ma tantissimi giovani si alzano mattina dopo mattina senza fare niente. Si svegliano, si incontrano con gli amici per bere del tè, parlano di tutto e di niente, mangiano, fanno dello sport, si incontrano per altro tè e vanno a dormire. E si ricomincia il giorno dopo. Questo succede ovunque.
È difficile cominciare ogni giorno vedendo che in casa non c’è nulla da mangiare. Lo puoi fare per un mese, due, tre, ma poi cerchi una soluzione. Non si tratta solo di te, ma di tutta la tua famiglia. Qui in Senegal normalmente una persona non lavora per se stessa: il suo salario sfama dieci bocche. Se il capofamiglia non riesce più a supportare questo ritmo, tocca ai figli. E se non trovano niente, è comprensibile che cerchino di partire per inviare soldi a casa e mantenere la famiglia. Chi resta vede che chi arriva in Europa riesce ad inviare fondi a casa e sollevare le sorti della propria famiglia. La speranza è di trovare più facilmente un lavoro che qui. Per la maggior parte poi l’idea è di tornare e sviluppare qualcosa nelle loro comunità di origine.
E tu, hai mai pensato di partire?
Si ci ho pensato, non l’avevo escluso. Quando finisci l’università trovi dei contratti di lavoro che assicurano un posto per un tempo brevissimo. E aspetti. E nell’attesa, è difficile non pensare di partire. Da un lato c’è la pressione di imitare altri amici che se ne sono già andati, e dall’altro la pressione familiare. Come puoi essere tranquillo nello svegliarti e vedere che tua mamma si affanna per raccimolare qualche soldo ed acquistare del cibo? Proprio l’altro giorno un ragazzo ha aggredito una signora davanti al commissariato di polizia. Sapeva che non avrebbe avuto scampo, ma era spinto dalla disperazione. Quando l’abbiamo fermato piangeva. Suo padre se ne era andato e la famiglia non poteva più sopravvivere. Qualche volta le madri dicono ai figli di trovarsi un lavoro, ma non chiedono di partire, sanno che è pericoloso. Sono i giovani stessi a pensare che migrare essere una soluzione.
Questo progetto coinvolge anche donne e ragazze. Sono però più spesso i ragazzi che se ne vanno. Perché secondo te?
Ci sono delle ragazze che partono, ma per loro il rischio del viaggio, che già è di per se un’impresa ardua, diventa ancora più alto, perché rischiano di subire violenze durante la tratta. Il Senegal è ancora un paese molto tradizionale, e la tradizione vuole che gli uomini sostengano la famiglia e che le donne restino a casa. Questo però sta cambiando. Ora ci sono tante ragazze che non accettano più queste imposizioni, hanno le stesse qualità degli uomini. Ci sono delle donne che lavorano in carrozzerie. Non avremmo mai e poi mai pensato che questo potesse succedere. Ce ne sono altre in politica, incredibile concepirlo fino a pochi anni fa.
Cosa bisogna migliorare?
Credo la forza di PONTI sia l’andare oltre l’informazione, includendo componenti di formazione e accompagnamento nell’avvio di attività. Lo sportello è aperto, ed alcune persone stanno cominciando a presentarsi. Credo però si debba puntare sull’andare verso i giovani, essere più dinamici, anziché aspettare che siano loro a venire. Portare i servizi dello sportello fuori da queste mura. Quando i ragazzi scoprono le opportunità che offriamo sono molto interessati. Durante alcuni eventi di presentazione donne e giovani si sono messi in fila per scoprire cosa proponevamo. Abbiamo voglia di fare, ma non abbiamo opportunità. E se ci vengono offerte, le prendiamo al volo. (giadacicognola@gmail.com – Volontaria in Servizio Civile Nazionale)
Inclusione sociale ed economica, giovani e donne, innovazione e diaspore
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