I volontari in servizio civile quest’anno si presentano (3)
Agata Cantaroni (Progetto La vita per te, Madagascar: “Il diritto alla salute in Madagascar: una frontiera da conquistare”)
IL CORAGGIO DI AGATA
Ci vuole coraggio per partire. Lasciare tutte le nostre certezze, il nostro piccolo mondo, gli affetti, le abitudini. Ci vuole coraggio, o almeno così dicono. Ad Agata questo coraggio non manca di certo, anche se non è il primo termine che userebbe per definirsi. Ha “solo” 19 anni, ma in lei ritrovi quella determinazione, quella sensibilità, quella curiosità scevra da pregiudizi che probabilmente servono per intraprendere questa avventura. Essere coraggiosi non significa non avere paura. Le difficoltà non mancheranno, ma lei è pronta a scoprire e a lasciarsi sorprendere da tutto ciò che ancora non sa, e forse, alla fine, è proprio questo il bello.
Ciao Agata! parlami un po’ di te, delle tue passioni.
Mi chiamo Agata Cantaroni e vengo da Montale Rangone in provincia di Modena. Ho 19 anni e ho da poco terminato le superiori, frequentando l’indirizzo in grafica e fotografia. Ho praticato nuoto sincronizzato per cinque anni, allenandomi quattro volte a settimana, anche se ho dovuto lasciare per motivi scolastici. È uno sport che ho sempre apprezzato perché presuppone un buon lavoro di squadra e mi sento particolarmente a mio agio a lavorare in team. In fondo un’esperienza come il servizio civile è molto simile. Tra i compagni è necessario che ci sia fiducia reciproca e sintonia per poter raggiungere gli obiettivi, e per ora ho dei buoni presentimenti al riguardo. Un’altra cosa che dovresti sapere è che ho una passione incredibile per la fotografia, che spero di poter impiegare anche quest’anno. Nella vita sono una persona molto testarda. Cerco sempre di raggiungere i miei obiettivi, cercando di tovare il giusto compromesso quando necessario.
Come è nato questo amore per la fotografia?
Mio padre ha sempre avuto come hobby la fotografia. Sono praticamente cresciuta vedendolo con la macchina fotografica perennemente in mano e da subito mi sono chiesta cosa potesse avere quell’oggetto di tanto bello. Così ho iniziato, una foto tirava l’altra, e con il tempo ho notato che scattare fotografie mi piaceva e mi tranquillizzava in un certo senso. Ad oggi è diventata la mia più grande passione, anche se so di avere ancora molto da imparare.
Dove nasce l’idea del servizio civile?
Come ogni maturando che si rispetti, anche io ero indecisa sul da farsi. Poi un giorno, durante una presentazione in classe sul servizio civile, è scattata la curiosità di approfondire e capire meglio di cosa si trattava. Spulciando il bando, indecisa tra Kenya e Madagascar, inizialmente mi sono avvicinata ad un’iniziativa coi Caschi Bianchi sempre in Madagascar, che riguardava la divulgazione di notizie tramite vari canali, tradizionali e social. Successivamente un amico di famiglia mi ha segnalato l’iniziativa “Il diritto alla salute in Madagascar” e ho subito colto l’occasione. Trovo che questo progetto mi rispecchi meglio e soprattutto che sia un bel modo per coniugare la mia passione per la fotografia e il desiderio di dare un contributo concreto ed essere utile agli altri.
Come è stata accolta la notizia a casa?
In effetti ho avuto il massimo supporto da tutti fin dall’inizio, in particolare dai miei genitori e mio fratello, anche se è difficile metabolizzare l’idea che sarò lontana un anno e la nostalgia si farà sicuramente sentire. Mia mamma in particolare, anche se ogni tanto qualche lacrimuccia ci scappa, è stata totalmente onesta con me. È logico che saranno preoccupati e un po’ rattristati dalla mia assenza, ma ciò non toglie che sono fieri di me, della mia scelta e mi appoggiano fino alla fine. Siamo una famiglia molto unita e a loro devo la persona che sono. Mi hanno trasmesso il valore del rispetto e della fiducia, che per me sono fondamentali in qualunque relazione con l’altro. Tengo molto ai miei amici, con cui ho uno splendido rapporto e in cui ripongo estrema fiducia. Per quanto riguarda questa esperienza, anche il mio ragazzo comprende il mio desiderio di partire, perché capisce il valore dell’opportunità che andrò a vivere. È entusiasta di questo “successo”, come fosse suo.
Hai vissuto altre esperienze fuori casa?
Niente di prolungato. Ho svolto diverse vacanze studio, prima a Liverpool e poi a Southport, per migliorare l’inglese. Questa è la prima esperienza vera lontana da casa. Insomma, parto subito col botto! Anche se può sembrare strano, non ho trovato particolarmente difficile prendere questa decisione. Non mi definirei nemmeno coraggiosa. Semplicemente, nonostante la paura di lasciare i miei affetti, prevale la curiosità di vedere e scoprire posti e volti nuovi. Mi piace imparare sempre cose diverse e sono pronta a mettermi in gioco, senza troppi timori di sbagliare.
Impressioni a caldo in queste prime settimane di formazione?
Devo dire che per il momento sono abbastanza tranquilla. La sfida vera sarà al momento della partenza. Solo una volta arrivati cominceremo a capire meglio i nostri compagni e come affronteremo le cose. Per l’areo ammetto di essere un po’ preoccupata, in effetti tutte le volte che mi tocca partire succede sempre qualcosa, ma pensiamo positivo!
Qualche idea o aspettativa dopo quest’anno?
Difficile a dirsi. Per il momento mi interesserebbe iniziare l’università in Communication Design o Digital Communication Design, ma in fondo chi può sapere come sarò e cosa vorrò fare al termine di questo viaggio? Mi lascio aperta ogni possibilità e mi permetto di vivere questa esperienza nel modo più aperto possibile. Sono una persona determinata. Lo stesso concetto che applico alla fotografia, lo uso nella vita in generale: se comincio una cosa, la voglio finire e soprattutto finire bene. Sicuramente il sogno nel cassetto sarebbe riuscire a viaggiare il più possibile e a vivere grazie alla mia passione. Per ora, si inizia da qui, e che inizio!
A cura di Patrizia Locatelli
Cecilia Ferraro (Progetto EDU-DAC, Senegal: “Salute: Stop malaria e consultorio femminile a Pikine Est”
CON LE MANI IN PASTA
Cecilia arriva sorridendo, una ventata d’aria fresca. Ha 28 anni, tantissime idee ed altrettante passioni ed esperienze. Mi parla di antropologia, di cinema, di movimenti popolari e viaggi che l’hanno resa la persona che è oggi. Una persona che ti fa venire voglia di conoscerla meglio.
Ciao Cecilia, parlami un po’ di te.
Sono Cecilia, ho 28 anni e vengo da Verona. Ho due sorelle, una maggiore e una minore, a cui sono molto legata. Ho studiato antropologia, prima a Bologna e poi a Torino. Ho lavorato per due anni in un centro d’accoglienza a Verona.
Cosa fai nel tuo tempo libero?
A Verona ci sono molte possibilità se le si va a cercare, se c’è la volontà di ritagliarsi il proprio spazio. Amo ballare. Sono molto fortunata, nel paesino in cui ho trascorso la mia adolescenza ho trovato questo grande gruppo di persone con cui trascorro la maggior parte del mio tempo. Trovo che l’amicizia che coltivo con loro sia una delle mie grandi forze. Molte di queste persone sono state fuori città, alcune sono tornate, poche non sono mai partite. Sento che, anche se andassi in capo al mondo, continuerei ad appartenere a questo gruppo in cui ci supportiamo e ispiriamo a vicenda. Loro per me rappresentano una certezza.
Sei un’antropologa e molto appassionata del sociale. Quando hai capito che questa era la tua strada?
Ho avuto molta libertà e input fin da piccola. Mia madre, negli anni Ottanta, ha aperto uno dei primi negozi biologici di Verona, creando un bel circolo di mamme interessate ad una certa alimentazione e percorso di crescita per i propri figli. Poi, ha aperto la prima Scuola Steineriana, quindi con una pedagogia alternativa e molto attenta allo sviluppo naturale del bambino. Ho sofferto molto quando poi sono andata alle scuole medie, in un paesino in cui il diverso è mal accettato, ancor più in quella fascia d’età. Da bambini non si è coscienti di questa diversità, ma in qualche modo la si sente. Il mio impegno sociale lo devo ai miei studi di antropologia, che ti porta forse ad affrontare determinati argomenti. Inoltre la città di Torino, dove ho studiato, mi ha molto ispirato. Qui ci sono molti movimenti forti, partecipati e con una grande intersezionalità. Sono movimenti che vengono dal basso. Persone diverse ma estremamente legate al proprio territorio. Sono grandi esempi di come si possa cambiare contando sulle proprie forze.
Raccontaci della tua passione per il cinema
Al cinema ci sono arrivata per contrarietà, proprio come Guccini consiglia di non fare! Sono entrata in contatto con il video making durante l’università a Bologna, pur non coinvolgendomi in prima persona. Vedevo le persone intorno a me darsi da fare in questo campo, ma sono sempre rimasta distante. Poi, durante la specialistica a Torino, ho avuto la possibilità di seguire un corso di antropologia visiva e un laboratorio di video etnografico. Mi sono detta “ok, proviamo un po’ a capire cosa fare con questa macchina fotografica” e ho iniziato a guardare documentari e capire il linguaggio cinematografico. La storia dell’antropologia visiva si intreccia necessariamente con la storia del cinema. Così ho capito che mi piace molto narrare con il multimediale: leggere un grande libro di etnografia può essere noioso, forse è anche per questo che l’antropologia resta elitaria, resta nell’Accademia. Il documentario, invece, lo si può guardare anche al cinema e si può imparare moltissimo. Quando sono tornata a Verona, una volta finita l’università, mi sono iscritta ad una scuola di Cinema Documentario Etnografico. Questo mi ha dato la capacità di saper utilizzare uno strumento, cioè la macchina fotografica. Certo, non so ancora se sia il mio strumento, sono ancora in esplorazione da questo punto di vista… Ho intenzione di verificarlo in Senegal!
E hai avuto modo di fare dei lavori tuoi?
Certo, ho prodotto un documentario tutto mio come lavoro finale per la Scuola di Cinema. Ho messo una telecamera sul cruscotto della mia auto e mi sono filmata mentre portavo in giro gli ospiti del centro d’accoglienza. È stato divertente. Non volevo parlare di immigrazione in modo canonico, ma affrontare il tema in maniera divertente e ironica, parlando di incontri e ridendo delle situazioni assurde che accadono quando si incontrano persone diverse da noi.
Quali sono state le difficoltà e le soddisfazioni che hai tratto dal tuo lavoro nel centro d’accoglienza?
Nel centro d’accoglienza ci sono stata per due anni. Sento di essere cresciuta molto in quell’ambiente, ma senza mai avere una formazione ufficiale. È un vantaggio perché stimola molto il problem-solving, ma uno svantaggio perché possono venirti a mancare certi strumenti che sarebbero invece utili. Ho ricevuto molto supporto dal mio coordinatore, che mi ha spronata a dare del mio meglio lasciandomi anche molta libertà. Lì, mi sono ritrovata ad avere a che fare quotidianamente con moltissime persone: colleghi e ospiti del CAS, che possono avere approcci molto diversi e con i quali si può entrare in conflitto. Inizialmente seguivo CAS con solo uomini, devo dire che mi piaceva molto e spesso mi sono trovata a toccare con mano i miei limiti e i miei pregiudizi.
Qualche soddisfazione personale?
Sicuramente sì. Sento di essere cresciuta molto quando ho iniziato a lavorare con le famiglie. Seguivo le donne in gravidanza e dovevo fare enormi sforzi per smuovere il nostro territorio rispetto a queste donne e fargli fare un passo verso di loro. Farlo è stata la sfida più difficile per me, perché si è trattato di smuovere le coscienze. Mi ricordo di due donne, entrambe togolesi, che non volevo portare direttamente all’ospedale per il parto. Volevo fossero preparate il più possibile in un sistema che non conoscevano e una lingua che non capivano bene. Ho chiesto che potessero partecipare a dei corsi pre-parto. In questo caso, ho trovato la collaborazione di un’ostetrica estremamente ricettiva, che ha tenuto il corso insieme a una mediatrice di lingua francese. E da lì non mi sono più fermata.
Perché hai voluto cambiare e perché con il Servizio Civile?
Ho voluto fare un cambiamento perché il lavoro nel CAS può risucchiare molte energie e dopo due anni mi sento svuotata. Sento di aver dato molto, ma con le ultime decurtazioni di fondi è diventato ancora più difficile lavorare nel sistema di accoglienza: non è più possibile pagare la scuola, le cure mediche. Restava poco lavoro, se non quello di verifica della struttura, ma non c’era più spazio per instaurare un contatto autentico con le persone. Il servizio civile è stato una conseguenza naturale. Mi è sembrata una meravigliosa opportunità di andare ad esplorare il mondo avendo comunque opportunità di crescita. Quando ho iniziato a cercare i progetti ho fatto una ricerca per continenti e l’Africa è emersa spontaneamente, vista la mia vicinanza con le persone di questo continente. Il progetto Stop Malaria e consultorio femminile l’ho trovato adeguato alla mia esperienza.
Cosa ti fa paura rispetto a quest’anno?
Diciamo che in questi due anni rispetto al mio ambiente sono cresciuta e mi sono sentita molto valorizzata, in modo spontaneo e naturale. Aver interrotto quel percorso significa rifare tutto da capo, rimettersi in gioco.
È la prima volta che parti?
No, dopo aver finito il liceo sono partita per l’Australia, era il 2010. Sono partita con molta leggerezza e voglia di avventura. Una mia amica mi ha raggiunta poi in Indonesia, abbiamo noleggiato i motorini e siamo partite alla scoperta. Ho sentito una grande energia: ho visitato grandi templi, siamo andate in mezzo alla giungla, scalato un vulcano all’alba. Lì ho scoperto che essere in un ambiente distante da quello a cui siamo abituati in Europa mi stimola moltissimo. Mi viene voglia di scoprire, di fare, di entrare davvero a contatto con le vite delle persone. Stare in osservazione, lasciarmi affascinare senza essere per forza invadente. Sono sicura che sarà così anche per il Senegal. Peraltro ho già un legame con questo paese, conosco persone che vivono lì, persone di Pikine che vivono in Italia e ci torneranno quest’anno. Siamo già d’accordo di rivederci!
Dimmi una cosa che ti piace molto di te stessa.
So fare cose. Dove mi metti, sto. Tiro fuori il meglio della situazione. Anche se è difficile, cerco di organizzarla al meglio. Mi faccio ispirare dall’ambiente che mi circonda e trovo sempre come tenermi impegnata. Direi che sono sempre con le mani in pasta!
a cura di Anamaria Savianu
Elisa Dachena (Progetto La vita per te, Madagascar: “Il diritto alla salute in Madagascar: una frontiera da conquistare”)
DUE PASSIONI: AFRICA E OSTETRICIA
“Non volevo cambiare la realtà, ma farmi cambiare da quella realtà”. Così Elisa Dachena descrive la sua esperienza in Madagascar. Ostetrica sarda, ventitré anni, una ragazza spumeggiante che sta per tornare nell’isola africana per il Servizio Civile Universale.
Allora Elisa, perché l’ostetrica? Da dove viene questa scelta?
Così a bomba! Partiamo dal presupposto che mia mamma è ostetrica. Non mi ha mai potuto dire che i bambini li portano le cicogne. Quindi ho sempre saputo che nascono dall’amore o in ogni caso da una donna. Fin da piccola quando incontravo una donna incinta o con un bambino per strada la fermavo esaltata. Molto presto ho iniziato a chiedere un fratellino. Volevo un fratellino-bambolotto, che chiaramente non è mai arrivato. Per l’esattezza ho iniziato a chiedere un fratellino nero. Mia mamma mi diceva: “Amore, ma se tu vuoi un fratellino nero dobbiamo cambiare papà!”. Io rispondevo che non era necessario. Bastava andare al nido in ospedale e prenderne uno, ce n’erano tanti. Da grande ho continuato ad avere una grande passione per i bambini e le mamme col pancione, ma non ho mai esternato, nemmeno in famiglia, il fatto di voler fare l’ostetrica. Avevo paura che tutti mi dicessero che lo avrei fatto solo perché mia mamma mi avrebbe aiutata a trovar lavoro ecc.
Mai avuto dubbi su questa scelta?
Durante gli anni del liceo, ho frequentato lo scientifico, ero indecisa tra ostetricia e architettura. Per inciso, sono un’amante della matematica e dello studio di funzione e mi piace molto disegnare. Poi mi sono chiesta: “In un futuro ti vedi più ostetrica o architetta?”. La risposta era palesemente ostetrica, perché unisce la conoscenza teorica al rapporto umano più profondo con le partorienti. Questa attività richiede un forte grado di pazienza, tolleranza, empatia. E anche al livello fisico è molto impegnativa, con una donna che arriva a partorire attaccata al tuo collo. A me piace tantissimo seguire i travagli perché passi dal non conoscere quella persona a condividere con lei quello che probabilmente è il momento più importante della sua vita. Io ho assistito materialmente cinquantadue parti. Mi sono commossa ogni singola volta. È un’emozione che ti fa riempire gli occhi involontariamente, una pienezza impagabile. Essere presente nel momento in cui nasce una vita è in fondo la vera ragione della mia scelta. Nel vedere il bambino vedi una miriade di possibilità, un bambino indifeso che magari in futuro diventerà chi sa chi. E potrai dire: “Eh beh… quello l’ho fatto nascere io!”.
Perché il servizio civile? Perché in Africa, e perché il Madagascar?
Il servizio civile mi si è presentato come un’opportunità fantastica di associare due cose. Prima di tutto amo essere ostetrica. Non sono disposta ad aspettare per anni concorsi pubblici in Italia. Sono pronta ad andare all’estero perché non voglio fare altro nella vita. A questo si unisce il mio grande amore per l’Africa. Il mio sogno era andare lì e dopo esserci stata lo è ancora di più. Durante il mio percorso di laurea ero a contatto con un prete della diocesi di Sassari, la mia città. Lui è in missione in Madagascar da anni. Quando è tornato in Italia ci siamo visti e io gli ho detto: “Dopo la laurea posso venire anch’io?”. Lui ha risposto: “Anche adesso!”. Quella risposta mi ha spiazzato. Ero al primo anno di università, quindi avrei aspettato la laurea. È comunque rimasto un tarlo nel mio cervello. Al terzo anno ho deciso di chiedere come regalo di laurea un contributo per partire. Sono stata in due villaggi nel sud del Madagascar per due mesi. Non avevo un ruolo sanitario, è stata un’esperienza prettamente umana. In uno dei villaggi c’era una casa-famiglia per persone con patologie. In Madagascar l’assistenza sanitaria è a pagamento. Questa struttura permette di essere seguiti e ricevere un’accoglienza appropriata durante le cure in ospedale. C’è una grande attenzione alla nutrizione, in particolare in ambito materno-infantile, anche per affrontare eventuali interventi chirurgici, finanziati dalla missione. Il mio intento non era andare lì come ostetrica “salvatrice”. Il mio intento era andare e conoscere, entrando in punta di piedi. Non volevo cambiare la realtà, ma farmi cambiare da quella realtà. È stata davvero una rivoluzione nella mia vita, senza retorica. Ho vissuto esperienze molto forti, che mi fanno commuovere ancora oggi, adesso, qui di fronte a te.
Come è il tuo rapporto con l’Italia?
Prima di partire mi sono sentita a tratti infastidita dal contesto italiano in cui vivevo. Ho capito che non era un problema mio e non ero io a dover cambiare le mie idee per adattarmi. Quando sono tornata dal Madagascar mi sono sentita ancora più fuori posto. Ero insofferente verso la superficialità della realtà che mi circondava. Riadattarmi alla nostra vita è stato difficile. Ho avuto due mesi di mal d’Africa, con pianti disperati. È stato un periodo devastante, poi ho iniziato a stare un po’ meglio.
Quali sono le altre tue passioni?
Il disegno in tutte le sue declinazioni. Ho coltivato questa passione unendo pancioni e disegno attraverso il body painting. Ho iniziato con il trucca-bimbi e la clownterapia. Sono stata anche babysitter, in particolare di alcuni neonati, e animatrice nell’oratorio della mia parrocchia. Truccare i pancioni è comunque la cosa che più mi piace perché unisce il mio amore per il disegno e l’ostetricia. Mentre disegno faccio anche un po’ di consulenza ostetrica alla mamma sui suoi dubbi e paure sul parto. Mi piace molto “Grey’s Anatomy”, che ho rivalutato all’università iniziando a capire i casi clinici rappresentati. Amo la Disney, in particolare il Re leone, Pocahontas, Hercules, Mulan. Sono appassionata di pallavolo, che ho dovuto abbandonare dopo due interventi chirurgici alle ginocchia. In realtà mi piace praticare ogni tipo di sport. Do grande importanza agli amici, nel senso che la loro presenza nella mia vita è imprescindibile.
E i tuoi punti di forza?
Sicuramente sono estroversa ed empatica, al limite del troppo sensibile. Mi definirei spumeggiante, ma non ci vuole niente a farmi commuovere. Non mi mancano una certa assertività e capacità di leadership.
La tua identità: ti senti sarda? Italiana? Europea?
Se una sarda ti dice che non si sente sarda non è sarda. Sicuramente l’amore per la Sardegna c’è, sono più sarda che italiana. In realtà mi sento una cittadina del mondo, sono per la mescolanza, la non discriminazione e l’equità delle opportunità per tutti.
Il sogno nel cassetto?
Non vorrei restare in Madagascar a vita. Vorrei fare l’ostetrica in giro per il sud del mondo, viaggiare molto.
A cura di Michelangelo Caserta
Beatrice Roscioli (Progetto AMU-AFN: “Promuovere la cittadinanza globale dei giovani”)
BEATRICE: OCCHI SORRIDENTI E SPIRITO COMBATTIVO
Beatrice ha 27 anni, un viso raggiante che ti accoglie con tanto affetto, che esprime serenità e ti fa aprire il tuo cuore e parlare tranquillamente di tutte le cose che vuoi. Lotta contro le ingiustizie e crede nel collettivo.
Beatrice, che bel nome! Mi sembri molto piccolina, quanti anni hai?
Ne ho 27!
Ah come me! Allora cosa hai studiato e perché sei qui?
Studio cooperazione internazionale e sviluppo e sono qui perché vorrei capire se questa effettivamente è la mia strada. Sono qui per mettermi alla prova, per capire se le mie capacità possono portarmi a svolgere un lavoro nell’ambito della cooperazione internazionale. Ho sempre voluto fare il servizio civile e quest’anno ho deciso di fare domanda per un progetto qui in Italia in modo che io possa laurearmi e seguire le altre responsabilità che ho qui.
Allora oltre al servizio civile e lo studio stai facendo altre cose?
Oltre al Servizio Civile, sto facendo un tirocinio al Consiglio dei Ministri, proprio per capire se questa è la mia strada o meno. Il mio percorso universitario è iniziato un po’ tardi, perché quando sono uscita dal liceo inizialmente mi ero iscritta ad ingegneria, ma poi l’ho lasciata perché non faceva per me, non esprimeva quello che sono. Mi sono trasferita a Londra, poi quando sono tornata, ho continuato a lavorare. Ho sempre lavorato un sacco nella mia vita, anche per permettermi gli studi. Ho deciso di ricominciare l’università iscrivendomi a cooperazione, ma è stato difficile coniugare lavoro e studi, quindi per un paio di anni ho completamente abbandonato tutto. Lo scorso anno ho deciso di riprendere, e finalmente sto per finire. Quest’anno per me è la prova del nove.
Hai detto che hai sempre lavorato tanto nella tua vita, che tipo di lavori hai fatto?
Ho fatto i lavori più vari, dalla cameriera alla commessa. Per sei anni ho lavorato in un parco divertimenti, mi occupavo della gestione delle attrazioni, quindi sia dei macchinari che delle persone. È un lavoro che a primo impatto può sembrare facile e divertente, ma in realtà è piuttosto difficile. Ti trovi a gestire ottanta persone alla volta, magari nell’arco di dieci minuti, e la sicurezza di queste persone è nelle tue mani. Hai veramente tante responsabilità, soprattutto quando ti affiancano a nuovi colleghi che non conoscono il lavoro e non sono autonomi nella gestione del loro ruolo.
Quando sei tornata da Londra hai deciso di studiare cooperazione internazionale, che cosa ti ha portato a questa scelta?
L’ambito dei diritti umani mi ha sempre affascinato tantissimo, da quando ero al liceo. Sono sempre stata una persona molto combattiva, molto attiva da questo punto di vista, ma c’erano delle domande alle quali non riuscivo a rispondere. Qual era quel meccanismo nel mondo che dava così tanto a pochi e così poco a tanti? Queste domande, queste ingiustizie che non capivo, ci sono sempre state nella mia vita e ho sempre cercato un modo per lottare, ma anche per riuscire a definire il perché esistessero. Questo è uno dei motivi per cui ho scelto cooperazione.
Inoltre, ho sempre creduto che solo attraverso il confronto con gli altri siamo in grado di crescere e di svilupparci. Di portare un miglioramento ed un progresso, non solo nella società intesa come la città, ma proprio a livello umano. Ho sempre creduto nell’unione, nel lavorare insieme per raggiungere un risultato, perché credo che solo con il confronto e con l’aiutarsi reciprocamente si può crescere. Quindi, appunto, la cooperazione era sicuramente la strada più indicata.
Adesso stai per iniziare un altro capitolo nella tua vita, sia personale che professionale. Cosa ti aspetti dal servizio civile? Cosa pensi di portare a casa dopo quest’esperienza?
Questa è una domanda molto difficile. In realtà è un po’ un mettersi alla prova. Per capire se le mie possibilità, se io stessa, sono in grado di sopportare anche a livello umano determinate situazioni. Perché mi conosco, sono una persona molto sensibile, quindi non so quanto effettivamente riuscirei a reggere i contesti che magari tu che vai in Cambogia incontrerai. Però, ad esempio, nel progetto mi devo occupare di integrazione sociale, quindi è un’attività diretta. Devo ascoltare le storie delle persone e avere una certa razionalità nel capire quale magari potrebbe essere la soluzione migliore in quel campo. È una cosa che vorrei capire se riesco a fare. Voglio mettermi alla prova e capire quali sono le mie capacità e fin dove posso arrivare, soprattutto a livello emotivo.
Adesso partite per il Portogallo e rimanete tutti insieme. Hai paura di questa cosa o ti senti pronta?
Allora, ovviamente una nuova convivenza spaventa sempre un po’. A me è capitato di vivere con altre persone, però il fatto di ritrovarsi a condividere determinati spazi, soprattutto all’inizio, è strano. Spero vivamente che si riesca a creare una complicità tra noi ragazzi, ma anche un rispetto. Io sono una persona davvero molto aperta, però come tutti ho dei limiti. Quindi io rispetto te in tutto, però mi aspetto che sia lo stesso da parte tua. Poi potrei sentirmi in difficoltà nel farti notare che c’è una determinata cosa che mi infastidisce, perché mi rendo conto che certe situazioni possono creare scompiglio. In realtà mi sembrano veramente tanto carini tutti e tre, perciò non penso che avremo grandissimi problemi. È ovvio che un po’ mi spaventa, ma penso che alla fine, se c’è fiducia, confronto e dialogo, tutto andrà bene.
Cosa pensi di fare alla fine del servizio civile? Preferisci fare piani a lungo o breve termine?
Non sono proprio in grado di fare piani a lungo termine, per me è veramente impossibile. Io tendo a vivere molto alla giornata. Certe volte non mi rendo conto di quante cose metto insieme sul fuoco, mi faccio prendere tanto dall’entusiasmo però alla fine faccio tutto. Come ti dicevo prima, oltre al Servizio Civile devo finire il tirocinio al Consiglio dei Ministri, dare 3 esami, laurearmi. Un sacco di cose insomma. Ovviamente ci sono tante cose che mi piacerebbe fare dopo il Servizio Civile, ma con questo progetto passeremo tre mesi in Portogallo. Stare lì mi permetterà di acquisire una nuova lingua, che non parlo. Io parlo inglese, un po’ di francese e un po’ di tedesco e quindi sarebbe bello poter sfruttare questa lingua subito, magari nei prossimi due anni mi iscriverò a qualche progetto in Brasile o sempre in Portogallo.
Una relazione sentimentale in Italia ti potrebbe limitare se un giorno decidessi di andare a lavorare dall’altra parte del mondo?
Ovviamente sì, perché vivo la distanza con molta difficoltà. La conosco bene, perché ci sono passata, come dicevo ieri quando abbiamo fatto il gioco delle paure. Bisogna essere veramente consapevoli delle persone che abbiamo vicino, perché alcuni di loro, per quanto tu possa volergli bene ed amarli, non riescono ad accettare determinate scelte di vita, perché non rientra nei loro piani, hanno paura del cambiamento, di qualunque cosa che vada fuori dal loro percorso.
Come descriveresti te stessa?
Mi vedo caotica, perché ho tantissimi stimoli, ma sono anche una persona molto insicura, molto ansiosa. Oltre all’ansia, non ho una grandissima autostima. Per questo magari ho la mente piena di idee, ma non riesco a sfruttarle perché non mi sento mai all’altezza delle opportunità che mi si presentano.
Pensi di poter cambiare questa cosa nel futuro e riuscire a lavorare sulla tua autostima?
Questa è una domanda, alla quale cerco di rispondere tutti i giorni, ma non ne ho idea. Effettivamente per me è difficile affrontare un problema. Ovviamente ho tante persone che mi vogliono bene, lo riconosco e mi sento molto fortunata. Però è anche complicato andare da mia madre a dirle: “Mamma, ho questo problema”. Io mi chiudo completamente, non riesco ad esprimermi e anche se posso soffrire per qualcosa, non riuscire a parlarne influisce sulla mia autostima, ma penso sia normale.
Sicuramente è normale sentirci qualche volta insicuri e impreparati per affrontare certi problemi. Vorresti restare a vivere qui a Roma, con la tua famiglia?
Io non sono nata a Roma, sono nata e cresciuta in un paese vicino che si chiama Palestrina. È un paese veramente bello, ma non credo riuscirei a viverci per tutta la vita. Come ti dicevo prima, ho veramente bisogno di tanti stimoli, e il mio paese non può offrirmeli. Roma sarebbe il punto più vicino, però è una città veramente caotica. La vita qui è stressante, non fa per me, quindi non so veramente quale può essere il mio posto nel mondo. Una cosa che mi piace fare è viaggiare e, quando riesco a farlo, in ogni posto dove vado cerco sempre quel sentimento che ti fa sentire un po’ a casa. Ogni posto te lo dà in maniera diversa: un luogo che ti accoglie perché ha un determinato profumo, un altro perché ha un determinato colore, un altro ancora perché magari ti dà l’impressione di essere in una fiaba. Ad esempio Danzica, in Polonia, ti dà la sensazione di una scenografia teatrale, è bellissima. Perciò davvero, non so quale potrebbe essere il mio luogo per vivere, però sono sicura che alla fine il tuo posto è dove trovi le persone che ti fanno sentire a casa.
Quindi se trovi questa persona dall’altra parte del mondo, anderesti a viverci insieme?
Probabilmente lo farei, ma non solo per andare incontro all’altra persona, deve essere anche una scelta personale. Questa è una cosa a cui ci tengo molto.
a cura di Noha Matar
Federica Del Missier (Progetto CEVI, Brasile: “Agricoltura familiare e sovranità alimentare nella valle dello Jequitinhonha”)
LA FORZA DELL’INTROVERSIONE
Sguardo acuto, viso dolce e una cascata di riccioli: è Federica del Missier, ventiquattro anni, una invidiabile carriera universitaria e diversi assi nella manica. L’ho conosciuta durante la formazione generale a Roma, ed è stata la sua placidità a colpirmi.
Hai un cognome particolare, da dove viene?
Me lo chiedono tutti in effetti, molti ritengono provenga dal francese, in realtà significa suocero, dal dialetto friulano.
Che progetto intraprenderai?
“Agricoltura familiare e sviluppo sostenibile in Brasile”. Non era il mio progetto originario, sono stata ripescata. Ero interessata ad un altro progetto che riguardava l’emancipazione femminile in Senegal. Ho deciso di accettare perché trovo che ci siano alcune corrispondenze. In ogni caso ho deciso di mettermi in gioco e di accogliere nuove sfide.
Che tipo di affinità credi ci siano tra i due progetti?
Penso che, anche in un contesto rurale, sia possibile utilizzare un approccio di genere per valorizzare il ruolo delle donne nello sviluppo locale e sensibilizzare la comunità sul tema.
Sembra un vivo interesse, il tuo.
Sì. Nonostante abbia iniziato la mia carriera accademica in ambito prettamente economico, ho deciso in seguito di indirizzarmi verso il campo dell’economia dello sviluppo. Infatti la mia tesi di master, che ho appena concluso, riguardava l’impatto della disparità di genere sulla crescita economica in Africa e in Medio Oriente. Spesso, non si considerano le ricadute negative che derivano dall’esclusione dal mondo lavorativo di una fetta così importante della popolazione.
Hai altri interessi?
Adoro leggere articoli di giornale di politica internazionale e tenermi informata riguardo ciò che succede nel mondo.
Quali sono le paure che ritieni di aver superato o di star affrontando ancora oggi?
Sono sempre stata molto timida, sin da piccola. Ho dovuto lavorare molto su me stessa, soprattutto durante il periodo universitario, per sbloccarmi e relazionarmi con gli altri. Questo ha in parte influito anche nei miei primi viaggi, come l’Erasmus in Inghilterra. All’epoca ero molto insicura, ma ho capito con il tempo che le difficoltà vanno affrontate una ad una. Le situazioni di socialità sono imprescindibili, ed è la necessità a spingere all’azione.
Trovi che la tua introversione possa costituire un intralcio?
Ha ovviamente costituito un ostacolo, ma la considero anche una risorsa, mi ha resa più consapevole di me stessa.Da sola non mi annoio mai.
Quali pensi siano i tuoi punti di forza?
In primis la pazienza, penso possa essermi utile, so ascoltare.L’indulgenza verso me stessa, invece, temo costituisca una lama a doppio taglio: riesco a perdonarmi e a non essere troppo dura con me stessa dopo un fallimento, ma può anche portare a giustificazionismo e procrastinazione.
Dovrai imparare una nuova lingua in vista del viaggio?
Sì, sto studiando il portoghese, ma l’idea di imparare una nuova lingua non mi spaventa. Ho studiato infatti inglese, francese e un po’ di arabo, che trovo affascinante.
Cosa pensi ti aspetti dopo il servizio civile?
Cerco di non farmi aspettative. Spero fungerà da trampolino di lancio per il mio futuro e mi permetterà di accompagnare l’economia ad un percorso nella cooperazione.
C’è un libro d’infanzia in cui ritrovi la Federica di oggi?
Da piccola adoravo una saga, “The Tomorrow Series”. È un romanzo che parla di conflitti, confronto di culture, di relazione con l’altro.La protagonista si mette sempre in dubbio, e cerca di trovare umanità anche nel nemico. Mi rispecchio molto in lei, penso mi abbia influenzata positivamente.
E canzoni?
Bob Dylan. Mi riporta in epoche passate e forse ad un’umanità perduta.
a cura di Anna Tonelli