Raccontare il vivere al tempo del coronavirus (1)
Sono passati quasi due mesi da quando abbiamo visto i volontari impegnati nei diversi progetti di Servizio Civile Universale partire. C’è chi è rimasto in patria e chi è volato oltreoceano, spinti da quel senso di solidarietà che in un modo o nell’altro li accomuna e li rende davvero la “meglio gioventù” di cui abbiamo bisogno. Ora, però, per cause di forza maggiore – che tutti noi conosciamo – la maggior parte di loro sono stati costretti a rientrare e a sospendere i progetti in cui con passione e impegno avevano deciso di investire questo anno delle loro vite. L’emergenza che stiamo vivendo ci spinge a ricalibrare le traiettorie del nostro lavoro e delle nostre vite, ma ci mostra anche la resilienza di cui una comunità è dotata quando si unisce.
Così in questi giorni, come CIPSI, abbiamo deciso di aprire uno spazio virtuale in cui a far da protagonista sarà la narrazione dei volontari. Abbiamo chiesto ai ragazzi di raccontare la loro esperienza, il loro vissuto, le realtà che hanno incontrato in Italia e all’estero e il loro punto di vista sull’impatto che il virus sta avendo.
Buona lettura!
SULLA STESSA PIROGA
Io e le ragazze dello SCU ci teniamo la mano mentre atterriamo et… voilà, siamo arrivate, è notte e fa caldo. Il giorno dopo mi sveglio in una realtà del tutto diversa dalla mia. Resto in silenzio e osservo.
Pikine è un abbraccio di suoni. Quello che mi ha subito colpito, appena arrivata, è stato sentire la gente, alle 3:30 di notte, intonare dei canti religiosi. In effetti, ora riconosco gli orari della giornata grazie al richiamo del muezzin: dalle cinque del mattino invita alla preghiera, subito dopo il canto del gallo. E la città si sveglia.
Mi piace molto la terrazza dove facciamo colazione, perché da lì riesco a vedere come tutto si mette in moto la mattina. Chi va a scuola, chi lava, chi gioca, chi lavora, chi canta, chi prega e chi cucina. I clacson insistenti, le pecore che belano e i falchi che fanno a gara nel cielo. Quest’armonia di suoni fa da sfondo a queste vite, le coccola e le protegge. Ho pensato ad un mio amico di Pikine, arrivato in Italia due anni fa, a cosa avesse provato quando non ha più sentito il suono di casa. Glielo chiedo: “È stato difficile”, dice.
Il 22 marzo ho festeggiato il mio compleanno, o meglio, mi hanno festeggiata. Il cibo senegalese è molto buono, ma… i ragazzi e le ragazze hanno cucinato una carbonara da leccarsi i baffi e due torte alla crema. Tipico compleanno all’italiana insomma. Poco dopo è arrivata la cuoca a farmi gli auguri con un piatto di Thiebou yapp ed ecco che le due culture si sono incontrate. Le vogliamo tanto bene.
Sono grata per il mio team, per avere la possibilità di confrontarmi e di crescere con loro. Non sono soltanto miei colleghi, sono miei amici, che viaggiano con me sulla stessa barca, o meglio, sulla stessa piroga senegalese, lentamente e sotto un sole che scotta.
Il mio compleanno mi ha distratta un po’. Da cosa? Da giorni Pikine non ha più tutti i suoi suoni. Non è più una festa continua. La sera è silenziosa e spenta. Purtroppo, anche qui è arrivato il nostro nemico-COVID19- e il presidente ha ordinato delle restrizioni, isolamento. Mi spezza il cuore non poter più scendere per strada e abbracciare i bambini del vicinato o non poter lavorare nelle scuole, il progetto che ho scelto, perché sono chiuse. Ci sentiamo impotenti e forse è questo che mi rattrista.
Alle 19:21 il sole cala su Pikine Est e il muezzin richiama tutti al proprio “impegno”. Questo cielo arancione fa da tetto a tutte le nostre speranze, nell’attesa di svegliarci con buone nuove.
Iolanda Santoliquido (Progetto: “Tutti a scuola a Pikine Est”, Senegal)
COME BUONA TERENGA COMANDA
La vita in Senegal é completamente diversa. I luoghi, le persone i modi di pensare e di comportarsi.
Non so se tutti potrebbero riuscire ad apprezzare questa realtà, che a modo suo ti mette alla prova sotto ogni aspetto. Andiamo al concreto: il cibo molto piccante e molto pesante che ti trovi a mangiare con 30 gradi all’ombra, camminare per le strade con la tormenta di sabbia, farsi sorprendere dall’odore terribile di smog che inonda le narici durante le infinite code in autostrada, sono solo alcuni degli aspetti del vivere qua.
Quello che nel profondo stupisce, però, sono le persone. I bambini che guardano con occhi spalancati quella ragazza tanto diversa da loro, allungando la mano e ridendo, in un modo che ti scalda l’anima e il cuore. Poi ci sono i grandi. Abbiamo notato che apprezzano incredibilmente il nostro sforzo di parlare wolof (la lingua locale). Cambia qualcosa nel loro sguardo, diventano curiosi, si interessano. I senegalesi ti aprono letteralmente la porta di casa, sono “terenga”, ovvero accoglienza e condivisione che ti fa sentire importante, parte di un qualcosa.
E poi, da un giorno all’altro, qualcosa che sembrava così distante da noi, si è precipitata a pieno nelle nostre vite. I ragazzini che prima ci chiamavano “tubab tubab” (traduzione dal wolof “bianco bianco”), ora ci chiamano “coronavirus coronavirus” e sui mezzi pubblici si alternano timidi sorrisi a persone che, guardandoci, si coprono la bocca. Che strano essere dall’altra parte… fa sicuramente riflettere. Questi episodi sono stati occasionali e sotto certi aspetti comprensibili. La maggior parte delle persone hanno continuato a rivolgersi a noi con grande affetto ed esprimendo vicinanza per la situazione attuale in Italia.
Fortunatamente il governo senegalese si è mosso (anche prima di molti stati europei!) con forti misure di prevenzione che ci hanno costretto a un lungo periodo di quarantena e al nostro, ahimè, definitivo rientro in Italia. Quello che mancherà di più sono le persone, la comunicazione, lo scambio continuo, l’arricchimento quotidiano che riceviamo tutte le volte che mettevamo piede fuori casa. Ma non tutto è perduto, è richiesto uno sforzo straordinario da parte di tutti noi per poter ritornare domani ad abbracciarci, a scherzare e a condividere, come buona TERENGA comanda.
Alessia Manucci (Progetto: “Tutti a scuola a Pikine Est”, Senegal)