Eugenio Melandri a due anni dalla morte. Una nuova croce
di Laura Caffagnini (Si ringrazia la fonte: http://www.settimananews.it/profili/eugenio-melandri-a-due-anni-dalla-morte/ )
La benedizione di una nuova croce, nel cimitero di San Ruffillo, alle porte di Brisighella (Ravenna), domenica scorsa, ha segnato il secondo anniversario della nascita al cielo di padre Eugenio Melandri avvenuta il 27 ottobre 2019.
Dopo la messa nella vicina chiesa di Errano, familiari, amici e amiche hanno attorniato la piccola oasi di erbe e fiori dove riposa. Tra di loro l’artista Claudio Marini, amico fraterno di Melandri, la cui essenziale opera in ferro richiama lo spirito del missionario nel suo abbraccio alle persone più diverse arricchenti la sua umanità.
Un’unica vocazione
Mi aveva suggerito premurosamente il programma qualche giorno prima: «Invece di fermarti a Roma fino alla fine del convegno, torna sabato sera così a casa saranno contenti». Ci teneva, Eugenio, alla salvaguardia della mia vita familiare. E quella domenica, 27 ottobre, alla sera ero a casa.
Ma ci arrivai da Ravenna, dopo averlo accompagnato insieme alla sua famiglia negli ultimi quattro giorni della sua lotta contro il “drago”. Quando ne fu liberato, era la mattina della risurrezione, e ricorreva la Giornata ecumenica del dialogo cristiano-islamico, dentro di me ormai legata per sempre a quell’uomo che è stato tutto dialogo.
Eugenio Melandri, nato il 21 settembre 1948 tra le dolci colline dove ha voluto tornare per sempre, amava la Chiesa cattolica nella quale era stato battezzato ed era aperto al dialogo con persone di altre confessioni e di qualsiasi orientamento.
Missionario saveriano, europarlamentare, giornalista, attivista per la pace e i diritti umani, innamorato dell’Africa, è rimasto sempre fedele all’unica sua vocazione: quella di rendere grazie alla vita, della quale custodiva una scintilla. Poco dopo aver saputo del tumore da cui era stato aggredito, aveva intitolato la festa del suo settantesimo compleanno ispirandosi alla canzone di Violeta Parra “Gracias a la vida”.
Uno dei periodi più belli che ricordava erano gli anni di Vicenza, dove fu mandato dalla congregazione dopo l’ordinazione presbiterale che ebbe luogo nel 1974 a Parma. Gli era stato chiesto di occuparsi dell’animazione missionaria giovanile mentre si era iscritto a Sociologia all’Università di Trento in vista di un incarico nella comunicazione.
In questi anni si dispiega la parabola degli incontri che sarà una costante di tutta la sua vita. Ben presto si legherà al foltissimo gruppo di giovani riunito attorno a lui nella casa saveriana vicentina in un percorso spirituale e di impegno civile che attingerà agli stimoli di personalità cristiane come l’Abbé Pierre, il vescovo Hélder Câmara e i padri Ernesto Balducci e David Maria Turoldo che il giovane Melandri invitava a parlare alla città.
La sua ricerca, pure in seguito, si alimenterà anche al pensiero di figure laiche come il filosofo marxista Roger Garaudy o l’imprenditore illuminato Aurelio Peccei, dei quali amava la visione utopica applicata al presente. Già da allora Eugenio lavorava per diffondere il vangelo della pace invitando i giovani a uno stile di vita nonviolento e ad azioni contro lo spreco, promuovendo il diritto all’obiezione di coscienza, sostenendo l’obiezione fiscale alle spese militari e il disarmo unilaterale.
Più che una rivista
Tornato a Parma, padre Eugenio Melandri fondò e diresse per un decennio Missione Oggi che non era solo una rivista ma un laboratorio di idee che partoriva convegni su temi sensibili e ulteriori progetti, oltre che essere un’occasione di crescita umana per il gruppo redazionale che si riuniva regolarmente e viveva periodicamente momenti comuni.
Alle Missioni Estere lettrici e lettori partecipavano con interesse a cicli di conferenze domenicali sui testi del Concilio Vaticano II o sulle encicliche sociali. Il direttore spaziava ovunque collaborando con le riviste Nigrizia, allora diretta da padre Alessandro Zanotelli, e Azione Nonviolenta, con le quali condivideva lo sviluppo del movimento per la pace.
Molti ricordano i viaggi e i gesti di disobbedienza creativa a Isola Capo Rizzuto, destinata a ospitare gli F16 cacciati dalla Spagna; alla base Nato di Comiso (Ragusa) per contrastare l’installazione dei missili Cruise e durante la catena umana tra la centrale nucleare di Caorso e l’aeroporto militare di San Damiano (Piacenza) per manifestare contro il dispiegamento dei cacciabombardieri Tornado.
Nella seconda metà degli anni Ottanta, Melandri promosse quella che sarebbe diventata la campagna nazionale “Contro i mercanti di morte” presentata dal comitato omonimo formato inizialmente da Acli, Mani tese, Pax Christi e Missione Oggi, poi ampliatosi a vasti settori della società civile e dell’associazionismo laico, che portò alla legge 185/90 sulla regolamentazione del commercio di armamenti. Ricordando quel periodo, Eugenio amava sottolineare che questa normativa, la più restrittiva a livello mondiale, era frutto di centinaia di incontri e assemblee organizzati in tutta Italia che avevano coinvolto anche gli operai impiegati nelle fabbriche d’armi.
Si allargano i confini
Nel 1989, dopo grande titubanza, Eugenio Melandri accettò la candidatura alle elezioni del Parlamento europeo nelle liste di Democrazia Proletaria. Sapeva bene che accogliere la proposta e vincere le elezioni avrebbe significato dover rinunciare alla missione come presbitero e religioso, ma in quel momento percepì che era la strada da intraprendere.
Ottenne un ottimo risultato, fu votato in massa nel seggio dei confratelli, e l’elezione lo portò alla sospensione a divinis, conseguenza su cui non polemizzò mai in quanto prevista dal diritto canonico. La scelta non significava ripudiare la missione che aveva abbracciato ventenne, con entusiasmo, ma viverla in un modo nuovo, in territori inesplorati.
Contemporaneamente fondò l’associazione Senzaconfine – nella quale impiegò parte del suo stipendio –, un luogo e un giornale per tutelare i diritti delle persone immigrate che stavano arrivando in Italia, una porzione di umanità che gli starà sempre a cuore.
Diventare europarlamentare, operativo nel Gruppo dei Verdi, non solo condusse Melandri ad ampliare la rosa dei Paesi che aveva già visitato come giornalista, ma gli permise di annunciare nei palazzi della politica internazionale il contenuto di giustizia e di pace del vangelo con un linguaggio laico e a una platea più vasta e variegata.
Quanti incontri, scambi, esperienze e idee partorite durante i viaggi compiuti come vicepresidente dell’Assemblea paritetica della convenzione tra gli Stati dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico e la Comunità economica europea, e come membro della Commissione per lo sviluppo e la cooperazione. Tra i ricordi più vivi che aveva di quel periodo c’erano le missioni diplomatiche a Cuba dalle quali scaturirono l’amicizia con Fidel Castro e la ripresa delle relazioni tra il Paese e il Vaticano, con il conseguente viaggio di Giovanni Paolo II sull’isola.
Nel 1992 con Rifondazione Comunista – Democrazia Proletaria si era nel frattempo sciolta ed era confluita nel Movimento per la Rifondazione Comunista – Melandri si presentò alle elezioni per il Parlamento italiano. Eletto, dopo qualche settimana rinunciò per non ricoprire un doppio incarico, anche perché questa era la linea del partito. Nello stesso anno, a dicembre, con don Tonino Bello e il vescovo Luigi Bettazzi fu uno dei 500 che entrarono nella Sarajevo assediata per condividere con la popolazione i rischi della guerra e portare un messaggio di speranza e di pace.
L’impegno civile
Nel 1994 l’eurodeputato, invitato a ricandidarsi al Parlamento europeo, risultò il primo dei non eletti in due circoscrizioni del Nord e, diversamente dalla regola interna da lui osservata nel 1992, chi fu eletto, pur avendo doppio mandato, non si dimise, e Melandri rimase escluso. Fu per lui una grande delusione, vissuta senza rompere rapporti, sempre in spirito dialogico e nonviolento.
Così s’inaugurò una nuova e feconda stagione di impegno civile nella quale opererà come coordinatore nazionale dell’associazione Chiama l’Africa, direttore di Solidarietà internazionale, assessore alla Cultura e presidente dell’Infiorata nel Comune di Genzano, co-fondatore e presidente dell’Associazione obiettori nonviolenti.
Con Chiama l’Africa tra il 1997 e il 1998 coordinerà la carovana “Arriva l’Africa” attraverso sessanta città italiane, nel 2001 realizzerà il viaggio “Anch’io a Bukavu”, dal 2002 ad Ancona i convegni internazionali “L’Africa in piedi”; nel 2006 la missione internazionale alle prime elezioni libere nella Repubblica democratica del Congo con “Beati i costruttori di pace”, nel 2010 la campagna per il Premio Nobel alle donne africane con il Cipsi. Sotteso ad ogni campagna stava un modo inedito di intendere e raccontare l’Africa, appreso incontrando la sua società civile: non più il continente dolente, mero destinatario di aiuti umanitari, ma il continente che può, che ha enormi risorse naturali e potenzialità umane per costruire in libertà il proprio presente e futuro.
Questa e altre riflessioni Eugenio diffondeva attraverso Solidarietà internazionale, un osservatorio sulla società italiana e mondiale dove si elaborava una nuova via alla cooperazione internazionale. Gli editoriali invitavano a salvaguardare l’umanità dall’ideologia neoliberista, a guardare il mondo dal basso, a camminare con il passo dei poveri, persone che don Tonino Bello aveva raccomandato di non dimenticare all’amico fraterno alla vigilia della partenza per Bruxelles.
Anche durante gli ultimi ricoveri a Meldola, Eugenio aveva continuato a lavorare per la rivista, scrivendo l’editoriale e visionando gli articoli dell’ultimo numero da lui firmato, la cui copertina era intitolata “I nemici di Francesco”. Quasi un omaggio a colui che l’anno precedente, dopo la messa mattutina a Santa Marta, dicendogli “hai fatto bene” aveva approvato la sua scelta di trent’anni prima di intraprendere una missione nuova. «È stato un sigillo sulla mia vita»: così Eugenio definiva quasi in lacrime le incoraggianti parole di Bergoglio che mettevano fine a un lungo travaglio interiore.
In seguito a questo beneplacito, e anche per interessamento dell’amico don Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, un anno dopo arrivò la revoca della sospensione a divinis che aprì all’eucaristia presieduta da padre Eugenio il 20 ottobre nella casa saveriana di San Pietro in Vincoli. Durante quella messa, concelebrata nella Giornata missionaria mondiale, aveva confidato a un’assemblea commossa la propria fragilità che però era anche la sua forza e la sua felicità nel poter ancora consacrare il pane. Un pane che andava condiviso non solo all’altare ma nella vita di tutti i giorni. Spiegò a chi l’ascoltava: «È impegnativo chiamarsi compagni perché significa spezzare il pane, spezzarsi reciprocamente il pane. Significa che io non posso vivere se non faccio vivere gli altri insieme con me».
Grazie alla vita
L’esistenza di Eugenio Melandri è stata sempre un vivere insieme agli altri, già dall’infanzia nella sua famiglia. Respirò la fede dalla nonna, che gli insegnò a pregare, e la bontà dalla madre, con la quale sviluppò una grande intesa. È stato un bambino felice. Con i compagni di scuola e nella parrocchia dei Cappuccini di Faenza condivideva i momenti liturgici e il gioco. Vivere con gli altri lo appagava.
Tutte le persone che lo hanno conosciuto in profondità sanno la tenerezza del suo cuore celata spesso dietro a un atteggiamento ironico e rude. Uno spirito aperto lo ha sempre accompagnato spingendolo a conoscere, cogliere sguardi, scambiare pensieri, aprire la sua casa a tutti. Decisivo fu l’anno vissuto presso il prozio don Giovanni Melandri, parroco di Villanova di Bagnacavallo, un antifascista di fine cultura, che abitava con un altro prete di grande spessore, don Allegro Allegri.
Entrambi impressero su “Eugenio bell’idea” – così lo chiamava il maestro della scuola elementare – un timbro indelebile, e favorirono la crescita in lui del desiderio di diventare prete. Conoscere alcuni padri saveriani lo ispirò a passare dal seminario diocesano alla comunità missionaria. Ad essa ha fatto ritorno, invitato dal vescovo Giorgio Biguzzi, rettore della casa saveriana di San Pietro in Vincoli, dopo la scoperta della malattia che aveva deciso di affrontare vicino ai fratelli, curandosi all’Istituto romagnolo per lo studio dei tumori di Meldola.
È stato un anno sereno nonostante i morsi del cancro al pancreas. Dopo il primo sconcerto, la lotta per non lasciarlo vincere, per mantenere pur nella sofferenza la dignità e l’interesse per la vita e l’impegno per le sorti del mondo. Nella casa dove negli anni Sessanta aveva iniziato il noviziato, padre Eugenio ha potuto ricapitolare l’intera sua storia raccontando a chi l’ascoltava che era nato da papà Stefano e da mamma Bianca, ma era rinato con i saveriani, che percepiva come la sua famiglia.
Ha saputo elargire ancora tanto amore a chi si è avvicinato a lui e godere del calore di tante e tanti che gli volevano bene. Ha continuato a fare progetti, come la scuola di democrazia che voleva realizzare a San Pietro in Vincoli. È tornato a cucinare gli spaghetti alla carbonara come sapeva fare solo lui, si è divertito con i nipoti, ha condiviso momenti di spiritualità e svago con i confratelli.
Ha festeggiato il suo settantunesimo compleanno, che considerava un anno di vittoria sul tumore, con una grande festa intitolata “La vita è adesso”. Ha presieduto di nuovo l’eucaristia. Ha detto fino alla fine quel “grazie alla vita” che è il suo testamento.
Fonte: http://www.settimananews.it/profili/eugenio-melandri-a-due-anni-dalla-morte/