“Il futuro dell’Amazzonia nella bioeconomia”
di Maddalena Pezzotti, info@iltoroelabambina.it
Uno studio condotto da settanta esperti, presentato a giugno dell’anno passato, nella città di Belem, ha quantificato il peso economico della conservazione della selva del Brasile, mettendo fine alla deforestazione e riducendo le emissioni di Co2. I risultati indicano che questa ha un potenziale verde equivalente a centinaia di migliaia di posti di lavoro e milioni di dollari per le casse dello stato. Finanziato dalle organizzazioni World resource institute (Wri) e The new climate economy, il rapporto finale, dal titolo “Nuova economia per l’Amazzonia brasiliana”, dimostra che esiste un’opzione valida alla demolizione ambientale in marcia per effetto di un’attività umana indiscriminata. Se venissero adottati alcuni criteri, per il 2050, questa parte del pianeta non solo potrebbe essere autosostenibile, ma si convertirebbe in un’autorità bioeconomica.
La definizione di bioeconomia è frutto della proposta dell’economista, matematico e statistico, cecoslovacco, Nicholas Georgescu-Roegen, alla quale ha contribuito il filosofo Jiří Zeman. Si fonda sulla riflessione in base alla quale i processi finalizzati alla fabbricazione di merci limitano la disponibilità di energia. Infatti, la dispersione e il deterioramento delle materie prime determinano un loro minore reimpiego con un alto dispendio energetico. Georgescu-Roegen lo ha definito il quarto principio della termodinamica: materia ed energia entrano nel ciclo economico con un grado di entropia pressoché basso e ne escono con uno di gran lunga superiore. Ne scaturisce la necessità di incorporare vincoli ecologici nella scienza economica e promuovere l’uso di risorse biologiche, dalla terra, il mare, e gli scarti, per la produzione alimentare, mangimistica, industriale ed energetica.
Si è giunti alla conclusione, attraverso l’applicazione dell’approccio di Georgescu-Roegen e l’osservazione di quattro scenari, in cui si sono calibrate l’aggiunta e la sottrazione di alcune variabili ecosensibili. Nel primo, denominato di riferimento, segue l’attuale tendenza di degrado naturale. Nel secondo, si arresta la deforestazione, però non si fermano le emissioni di gas. Nel terzo, la situazione è rovesciata, contenendo l’effetto riscaldamento e continuando con il disboscamento. Il quarto combina la detenzione della deforestazione e l’abbassamento delle emissioni, in linea con gli impegni assunti dal Brasile nell’accordo di Parigi. La comparazione ha evidenziato che l’ultimo scenario condurrebbe alla creazione di 312 mila occupazioni in più, oltre a 365 mila nella bioeconomia, e altre 468 mila nell’opera di riforestazione. Ne sarebbero, inoltre, beneficiate le comunità indigene e afrodiscendenti.
Un modello centrato sulla valorizzazione delle caratteristiche fisiche e sociali dell’Amazzonia brasiliana può, quindi, avere sostanziali ripercussioni economiche e plasmare forme inclusive di sviluppo. Farebbe della regione il catalizzatore della decarbonizzazione e rappresenta la maggiore opportunità di progresso economico e umano della storia contemporanea del paese, secondo Rafael Feltran-Barbieri, economista capo del Wri. Di fatto, potrebbe rendere 8.400 milioni di dollari l’anno e, a livello ambientale, restaurare 22 milioni di ettari, evitare la deforestazione di 59 milioni, diminuire la perdita dell’acqua silvestre del 13 per cento, generare il 94 per cento in meno di emissioni nette nell’atmosfera, e permettere una cattura di carbonio del 19 per cento. Da tempo sull’orlo di una devastazione, in Amazzonia va applicato un principio di precauzione: anticipare e promuovere una struttura economica alternativa.
L’Amazzonia si estende per il 49.9 per cento dell’area continentale planetaria, di cui il 63 per cento si trova in Brasile. La pressione antropica non è mai cessata. Il nefasto precedente del restringimento al 10 per cento del bosco atlantico, per l’avanzata della produzione del cacao e del caffè nel XIX e XX secolo, ha spinto al disegno, nel 1988, di un programma di monitoraggio satellitare, e di politiche di salvaguardia, nel 1992. Nonostante ciò, i trafficanti di legname sono arrivati a controllare vaste fette di territorio, la coltura intensiva della soia transgenica si è dilatata a un ritmo sostenuto, e il settore estrattivo ha ottenuto e rinnovato concessioni, con l’appoggio di tutti i governi che si sono succeduti. Senza l’intervento dei gruppi ambientalisti, e la resistenza dei 300 popoli originari che la abitano, la foresta amazzonica sarebbe scomparsa nel giro di un paio di generazioni.
L’ex presidente Jair Bolsonaro, cavalcando il discorso di una presunta psicosi climatica e ambientalista, aveva allentato, in maniera deliberata, la sorveglianza delle aree protette, delimitate come terre indigene, dove non è permesso lucrare, dando inizio a un’era di depredazione, e azzerando gli sforzi sostenuti sino ad allora. Nella sua retorica governativa, le chiavi per disincagliare l’economia erano l’agricoltura massiva e lo sfruttamento minerario (in Amazzonia si stimano 86 miliardi di tonnellate di depositi di carbone, oltre a oro e diamanti). Investitori e agenti del business agro-forestaleed estrattivo, simpatizzanti di Bolsonaro, in quegli anni non lontani, avevano ingaggiato una vera e propria guerra nell’Amazzonia, fatta di irruzioni con equipaggiamento militare ed espropri illeciti, incendi dolosi, minacce a funzionari pubblici e attivisti, e ferimenti, torture e omicidi di leader indigeni.
Il tema centrale dello studio, invece, è la possibilità di perseguire un cammino di crescita non distruttivo e non conflittuale, nel rispetto della diversità culturale e degli equilibri dell’ambiente, e ancora con un valore inestimabile per il futuro del Brasile e del pianeta. Basti pensare che il bacino del Rio delle Amazzoni, con una media di 230 mila metri cubi al secondo, produce il 20 per cento dell’acqua dolce sulla superficie terrestre, e influenza la calotta dei ghiacci del polo sud. La capacità di assorbimento del gas serra della fitta vegetazione dell’Amazzonia ne fa un regolatore su scala mondiale. In aggiunta, la costruzione di questo scenario non implica costose innovazioni, solo l’ampliamento di conoscenze esistenti, così come la replica ed espansione di accordi produttivi già presenti. Le risposte, e le competenze, ci sono, e stanno tutte nella connessione virtuosa fra ecologia ed economia, l’unica che può guidare l’Amazzonia al suo punto ottimale.