sabato, Agosto 31, 2024
Rivista Solidarietà internazionale

“Popoli indigeni e land grabbing”

di Maddalena Pezzotti

Ayoreo, Hongana Manyawa, Kawahiva, Shompen, sono fra gli esempi più urgenti di tribù non contattate a rischio di estinzione, a causa dei bulldozer che, in Paraguay, spianano gli alberi, ettaro dopo ettaro, per ricavare pascoli per la produzione di carne destinata al mercato europeo; lo sfruttamento selvaggio del sottosuolo che, in Indonesia, contamina le falde acquifere, satura l’aria di polveri e deposita rifiuti che soffocano flora e fauna; piani incontrollati di urbanizzazione e industrializzazione che, in India, cancellano diversità biologica e aumentano le diseguaglianze sociali; il disboscamento che, in Brasile, trasforma l’Amazzonia in una sterminata piantagione di soia, mais e canna da zucchero, e compromette gli equilibri terrestri. Le tribù sono minacciate da guardie armate, al servizio di proprietari terrieri e compagnie private, i villaggi vengono attaccati, i capi assassinati. Quando possibile, si spingono ancora più nel fitto della vegetazione, ma una volta sfollate per effetto della bellicosa pressione colonizzatrice, vivono ammassate in piccole riserve, o in accampamenti di fortuna ai margini delle strade, privi del riparo e il sostentamento della foresta, dove dilagano malnutrizione, malattie respiratorie, alcolismo e un allarmante tasso di suicidi. 

Per definizione, sono popoli tribali di cacciatori e raccoglitori che si muovono in terre ancestrali a lungo isolate da sbarramenti naturali e che, in maniera volontaria, hanno cercato di evitare il contatto, continuando a esprimerne l’intenzione. Si può trattare di vere popolazioni o comunità di piccole e medie dimensioni che si sono separate dai ceppi originari. Ciò non vuol dire che siano ignari della presenza di altre tribù limitrofe o di un mondo diverso, come quello che noi conosciamo.
Infatti, nel corso del tempo, alcuni, ma non tutti, hanno intrattenuto vincoli occasionali, amichevoli o aggressivi, con gruppi affini e altri individui, introdottisi nel loro spazio tradizionale con vari propositi: cercatori di pietre preziose, bracconieri, contrabbandieri di legname, agricoltori e allevatori, missionari, lavoratori di compagnie minerarie domestiche e transnazionali. Tuttavia, non hanno mai cercato né di abbandonare il territorio, né di abbracciare un paradigma sociale ed economico differente, né di mantenere un dialogo strutturato e permanente con l’esterno.

Si stima un centinaio di gruppi a livello globale, malgrado non si possa dire con esattezza quanti siano. La concentrazione maggiore sembrerebbe essere in America Latina. La fondazione brasiliana agli affari indigeni (Funai, per la sigla in spagnolo), che con regolarità effettua ricognizioni aeree, ne ha rilevati 77; 15 si trovano in Perù; il resto vive tra Bolivia, Colombia, Ecuador e Paraguay. In Asia, sono stati identificati in India, nelle Isole Andamane, in Indonesia e Nuova Guinea. Ognuno rappresenta un’unicità compiuta e autonoma, con lingue, saperi e cosmogonie insostituibili, e la capacità di trovare soluzioni ecosostenibili alla vita sulla Terra. Le loro conoscenze, sviluppate in centinaia di anni, riflettono saggezza botanica e zoologica, e una comprensione profonda del medio ambiente.

Esiste, purtroppo, un luogo comune secondo il quale, se queste tribù hanno in qualche modo interagito al di fuori del proprio sistema di riferimento, e non hanno mantenuto intatto il loro archetipo di vita, non sarebbero degne di protezione speciale. Certo è che, da generazioni, fanno uso di utensili di metallo, abbandonati nella foresta o rinvenuti in carcasse di naufragi e, in alcuni casi, sono in possesso di armi da fuoco, ottenute dal commercio inter-tribale, prima ancora di aver visto un outsider. Di fatto, tutte le culture sono soggette a cambiamenti. Quello che conta è la scelta di voler restare separati da vicini e incursori. I nostri modelli non sembrano interessarli tanto da voler rinunciare ai propri.

Del resto, i popoli indigeni, che nel corso dei secoli, si sono visti costretti a convivere con stati occupanti e dominanti, sono stati collocati, in maniera sistematica e brutale, in condizioni di subordinazione, se non schiavitù, emarginazione e povertà estrema. La storia insegna che, coloro che sono riusciti a resistere ai massacri, si sono trovati in uno status di gran lunga peggiore dopo il contatto con la supposta civiltà. Gli avventurieri che i popoli non contattati hanno incrociato sul cammino, e la violenza di cui sono portatori, hanno lasciato loro un’idea chiara della prospettiva di distruzione insita nell’atteggiamento predatorio delle forme di relazione con l’altro e la natura che vengono da fuori.

Il fenomeno del land grabbing, ovvero l’acquisizione su larga scala, in paesi stranieri e spesso in via di sviluppo, da parte di governi, multinazionali e privati, di estensioni di territorio, non solo incontaminate, ma abitate da sempre, per la trasformazione in monoculture o allevamenti, o il prelievo intensivo di gas naturale e petrolio, è in aperta violazione della legislazione internazionale sui diritti dei popoli indigeni. Persino la produzione di energia nell’ambito della green economy, compresa l’estrazione di litio per le batterie delle macchine elettriche e la costruzione di centrali idroelettriche, nasconde la devastazione di intere popolazioni.

L’evidenza prova che i confini tribali sono la barriera più efficace alla deforestazione che minaccia la continuità del pianeta e che le nazioni indigene sono i suoi migliori guardiani. Preservarne il diritto alla terra è un’azione di beneficio mutuo che potrebbe, addirittura, condurre a nuove scoperte in campo scientifico e farmacologico per salvare milioni di persone. Tuttavia, le invasioni, li obbligano al contatto e, sopra ogni cosa, li deprivano dell’habitat in cui hanno organizzato la propria esistenza e fondato la propria identità, negandogli la facoltà di determinare il proprio futuro individuale e collettivo, e finanche la vita. Di solito, infatti, entro un anno dal primo contatto, più del 50 per cento della tribù viene sterminato da patologie prima sconosciute.

I missionari cristiani, che hanno giocato un ruolo nefasto nel passato, continuano a mettere a repentaglio le tribù non contattate che vogliono convertire a qualsiasi costo e contro le loro aspirazioni. Membri della New Tribe Mission, un organismo fondamentalista religioso degli Stati Uniti, nel 1987 realizzò una spedizione clandestina in Brasile per evangelizzare l’etnia Zo’é. Fra il 1982 e il 1985, avevano effettuato lanci di regali da piccoli aerei turistici e, poi, edificato una base nei pressi dei villaggi. Il solo primo contatto provocò il decesso di 45 persone per la trasmissione di virus influenzali. La sedentarizzazione intorno alla missione per ricevere attenzione medica non fece che aumentare la diffusione dell’epidemia e generò una penuria di selvaggina dovuta alla concentrazione di un alto numero di persone nella stessa area. Con il deterioramento di dieta e salute, gli Zo’è divennero dipendenti dai missionari per il cibo e le cure. La situazione divenne talmente grave da indurre il governo a espellere i missionari dal paese nel 1991. Da quando è stata lasciata di nuovo in isolamento, la popolazione è tornata a crescere.

In Perù, i Nahua sono stati decimati in seguito alle esplorazioni petrolifere, agli inizi degli anni ottanta. La stessa tragedia ha travolto i Murunahua, a metà degli anni novanta, per il contatto forzato con i tagliatori di frodo di mogano. Oggi sono i Mashco-Piro a essere oggetto di soprusi e omicidi in relazione al traffico illecito di legame, nonostante si siano ritirati fino alle sorgenti dei fiumi. Gli Akuntsu sono rimasti in cinque, gli ultimi superstiti di una terribile strage, avvenuta nello stato di Rondonia, nell’ovest brasiliano. Aggrappati a un lembo di foresta, mimano le persecuzioni di pistoleri a cavallo, apripista di mandrie di bovini, perché nessuno parla la loro lingua. La Funai ha attestato che la demolizione degli insediamenti è stata occultata con le ruspe.

Le tribù non contattate non sono relitti di un remoto passato, sono nostre contemporanee, e incarnano una tessera importante del mosaico della complessità umana. Una vasta gamma di poteri forti avversa la loro sopravvivenza, rendendole vulnerabili, sebbene siano dotate di risorse che gli permetterebbero di continuare a prosperare nel proprio ecosistema. Una mobilitazione dell’opinione pubblica mondiale si vede, dunque, necessaria per fermare il genocidio in atto.



Coordinamento

Solidarietà e Cooperazione CIPSI è un coordinamento nazionale, nato nel 1985, che associa organizzazioni non governative di sviluppo (ONGs) ed associazioni che operano nel settore della solidarietà e della cooperazione internazionale. Solidarietà e Cooperazione CIPSI è nato con la finalità di coordinare e promuovere, in totale indipendenza da qualsiasi schieramento politico e confessionale, Campagne nazionali di sensibilizzazione, iniziative di solidarietà e progetti basati su un approccio di partenariato. opera come strumento di coordinamento politico culturale e progettuale, con l’obiettivo di promuovere una nuova cultura della solidarietà.