“Flussi finanziari illeciti dall’Africa e cooperazione internazionale”
di Maria Teresa Cobelli
Nel Summit che si è svolto a Parigi il 25 luglio scorso, in vista dei giochi olimpici, l’attuale Presidente del Senegal, Bassirou Diomaye Faye, si è, tra l’altro, espresso in questi termini: «Dobbiamo purtroppo constatare che l’ideale olimpico è messo a dura prova dalla tragedia della guerra, dalla violenza in ogni sua forma e dalle disuguaglianze crescenti in seno e tra le nazioni. (…) Ispirato dall’ideale olimpico, il nostro incontro dovrebbe risvegliare le coscienze sulle iniquità persistenti di un ordine mondiale storicamente superato. Se vogliamo che le cose cambino, dobbiamo cambiare le regole del gioco. Penso all’evasione fiscale, ai differimenti fiscali abusivi e agli altri flussi finanziari illeciti che privano i nostri paesi di risorse vitali per il finanziamento dello sviluppo. Penso alla questione lancinante del trattamento giusto ed equo del debito, come pure al sistema di notazione distorta e prevenuta sulla valutazione del rischio riguardante l’Africa. Penso alle condizioni inique della transizione energetica (…). Penso all’architettura della governance economica, politica e finanziaria mondiale ereditata dalla seconda guerra mondiale nella quale la composizione degli organi e i processi decisionali non riflettono più le realtà de nostro tempo».
Se si è scelto di riportare un così lungo passaggio del discorso del presidente del Senegal, è perché riassume efficacemente le questioni che vengono sollevate con forza da più parti nei paesi del Sud globale. Si è osservato in particolare che negli ultimi mesi sono usciti in vari paesi africani (Burundi, Burkina Faso, Senegal, Gabon e altri) articoli e pubblicazioni che riguardano i flussi finanziari illeciti (FFI), riflessioni e denunce confluite nella Conferenza Panafricana sui FFI, tenutasi a Tunisi nel giugno scorso. Se ne attende il rapporto.
La prima forte denuncia da parte del Sud risale al 2015, con la pubblicazione del cosiddetto Rapporto Mbeki, prodotto dal “Gruppo di alto livello sui FFI provenienti dall’Africa” da lui presieduto, su richiesta della Conferenza congiunta Unione Africana/Commissione Economica per l’Africa. Come si vede sulla copertina, l’Africa grida: “Localizzateli! Neutralizzateli! Recuperateli!”.
Ma che cosa sono questi flussi finanziari illeciti, oggetto di attenzione anche da parte del Parlamento europeo (v. risoluzione del 2015), della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (CNUCED/UNCTAD-rapporto del 2020), dell’OCSE (2023, rapporto che si interessa in particolare al rapporto tra FFI e commercio dei prodotti petroliferi) e di innumerevoli altre istituzioni, governative e non?
I FLUSSI FINANZIARI ILLECITI
Tra le tante definizioni, quella della CNUCED afferma che i FFI sono “scambi transfrontalieri di valore monetario o altro, percepito, trasferito o utilizzato illegalmente”. Secondo il Parlamento Europeo, si tratta di “flussi finanziari privati, non registrati nei conti ufficiali, che derivano in generale da attività di evasione ed elusione fiscali, come l’abuso nella determinazione dei prezzi di trasferimento, e contrastano con il principio secondo cui le imposte dovrebbero essere versate nel luogo in cui sono generati gli utili”; questi, invece, vengono trasferiti in giurisdizioni opache offshore, come i paradisi fiscali, che presentano aliquote fiscali più basse e regimi normativi più permissivi e dove vige il segreto bancario e l’anonimato. Le opinioni divergono sui concetti e sulle definizioni. Vi sono infatti profitti che derivano da attività legali, ma che sono trasferiti illecitamente. Per la Banca Mondiale, ad esempio, certe attività come la pianificazione o l’ottimizzazione fiscale legale, non fanno parte dei FFI. Il termine “fuga di capitali” e FFI sono spesso usati indifferentemente, quando invece i secondi includono i primi. Questi pochi cenni per dare un’idea della complessità della questione e delle difficoltà e ostacoli relativi alla raccolta dati, al recupero e al rimpatrio dei capitali fuoriusciti illecitamente.
In qualsiasi modo li si definisca, è comunque assodato che i flussi finanziari illeciti, erodendo la base imponibile e spostando i profitti all’estero, costituiscono un’emorragia finanziaria che sottrae ai paesi del Sud – ma non solo – risorse che potrebbero essere destinate al finanziamento degli obiettivi di sviluppo sostenibile e costringono gli Stati ad indebitarsi ulteriormente, aggravandone la dipendenza dagli “aiuti” internazionali.
ENTITÀ DEL FENOMENO DEI FFI
Secondo i calcoli della CNUCED (v. fig. n.1) una riduzione dell’ammontare annuo della fuga di capitali dall’Africa, stimata in media a 88,6 miliardi di dollari l’anno per il periodo 2013-2015, equivalente al 3,7% del PIL africano, permetterebbe di finanziare la metà del suo deficit di finanziamento degli obiettivi di sviluppo sostenibile, fissato dall’Onu nel 2015 a 200 miliardi di dollari l’anno.
Figura 1: Fuga di capitali e finanziamento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile
Peraltro è da notare che l’Africa perde ogni anno in media, a causa dei FFI, circa il doppio di quanto riceve sotto forma di aiuto pubblico allo sviluppo (APS) o circa il doppio dei miliardi di Investimenti Diretti Esteri (IDE) (v. fig. 2). Il che dovrebbe quantomeno aggiungere elementi di riflessione a quelli già dibattuti nell’ambito della campagna sullo 0,7% del reddito nazionale lordo per l’APS.
Figura 2: Fuga di capitali e confronto con APS e IDE
Solo per fare qualche esempio, secondo la CNUCED, nello stesso periodo la Nigeria ha perso 41 miliardi di dollari, l’Egitto 17,5, il Sudafrica 14,1. Leonce Ndikumana afferma che in Sudafrica e in Angola i FFI rappresentano circa il doppio della spesa per la salute, il che significa meno ospedali, meno maternità, meno medicine, meno vaccini e così via.
Il fenomeno però è mondiale e sistemico: il rapporto del Tax Justice Network del 2023 parla di 480 miliardi di dollari di perdite fiscali annue a livello mondiale, di cui 384 persi nei paesi Ocse; 311 miliardi sono dovuti alle multinazionali, il resto alla ricchezza privata.
ORIGINE DEI FFI
Le fonti sono generalmente classificate in tre categorie: le attività commerciali, le attività criminali e la corruzione. Si stima che più della metà derivino dal settore estrattivo.
Come in parte già accennato, i FFI sono in gran parte generati da pratiche frequentemente usate nelle attività commerciali come la sottofatturazione delle esportazioni, la sovrafatturazione delle importazioni, la distorsione dei prezzi commerciali o la manipolazione dei prezzi di trasferimento nelle transazioni intra-aziendali, come nel caso delle multinazionali che, per ottimizzare le imposte, possono definire prezzi abusivi dei beni e servizi scambiati tra le varie filiali. Ad aggravare la questione, interviene la concorrenza tra i paesi fornitori che, per attrarre maggiori investimenti, praticano esenzioni e differimenti fiscali che comportano altre perdite e non favoriscono la necessaria cooperazione tra i paesi del Sud che, essendo i principali detentori dei minerali critici, potrebbero invece avere un potere negoziale enorme.
Un’altra fonte di FFI è costituita dalle attività criminali, come il traffico di droga, di armi, la tratta delle persone, il contrabbando, il bracconaggio, i furti di petrolio e molte altre. Alcuni di questi servono anche a finanziare il terrorismo.
E infine, inevitabilmente, essi sono anche il frutto della corruzione, che non ha bisogno di spiegazioni e per la quale comunque è opportuno tener sempre presente la compresenza e la corresponsabilità di corrotti e corruttori. Le pesanti condanne pronunciate dalla Svizzera nei confronti della multinazionale Glencore, grazie anche alle battaglie dell’associazione Public Eye, ne sono una dimostrazione. E dimostrano anche quanto la società civile possa fare.
I SETTORI PIÙ ESPOSTI AI RISCHI DI FFI
Come già detto, la maggior parte dei FFI legati al commercio derivano dal settore estrattivo. La CNUCED stima che la Nigeria, fortemente dipendente dal petrolio, abbia perso tra il 2013 e il 2015, somme che rappresentano il 46% delle fughe di capitali dell’intero continente e l’80% per l’Africa Occidentale.
Con la rimessa in discussione dei combustibili fossili e la digitalizzazione delle economie, la domanda si è però massicciamente spostata sui metalli e minerali di transizione energetica (MTE) e la concorrenza si fa sfrenata sia tra chi li richiede sia tra chi ne è fornitore. Mario Draghi, nel suo discorso sul futuro della competitività europea, ha dedicato a questa problematica un ampio spazio, sottolineando la necessità di stringere accordi commerciali preferenziali con i paesi produttori. Preoccupazione già presente nel Piano Mattei.
A proposito di FFI relativi al commercio nel settore estrattivo, è appena uscito un importante libro, Missing Dollars (Dollari mancanti- Geneva Graduate Institute), frutto di sei anni di ricerca, dal 2018 al 2023, da parte di un’équipe internazionale Nord-Sud, la cui edizione è curata da Carbonnier e vari (disponibile anche tramite Open Edition Journals).
Vi si descrivono nel dettaglio l’entità del fenomeno, i meccanismi di trasferimento dei fondi, i fattori di attrazione e di spinta, le esperienze, positive o meno, di vari paesi per contrastare il fenomeno, e così via. Il libro, si conclude con raccomandazioni e indicazioni riguardanti le politiche necessarie per frenare i FFI legati al commercio delle MTE. A questo punto si può solo osservare che esiste oramai una documentazione sterminata sul tema dei flussi finanziari illeciti, che hanno fatto oggetto di analisi, proposte di soluzione e raccomandazioni; sono state anche adottate, soprattutto in sede OCSE, misure tese a riformare il sistema. Il problema, da una parte, sta nell’applicazione di tali misure e raccomandazioni; dall’altra parte, nella loro adeguatezza o meno alle diverse realtà. Molte misure sono state infatti adottate con l’esclusione dai processi decisionali dei paesi del Sud, che sono i più direttamente interessati alla questione. Questi però fanno oramai sentire con forza la loro voce.
IL SUD ALL’OFFENSIVA
Nel recente articolo “Il Sud all’offensiva” di Dominik Gross (Alliance Sud, Svizzera) sui negoziati in corso all’Onu riguardo alla convenzione-quadro sulla cooperazione fiscale internazionale, si legge che al processo hanno partecipato per la prima volta nella storia tutti i 196 Stati membri dell’Onu e che il Gruppo Africa è stato il principale motore delle rivendicazioni dei paesi del Sud globale (G77). Everlyn Muendo, del Tax Justice Network Africa, vi ha sostenuto che, mentre i paesi dell’OCSE si nascondono dietro la panacea del capacity building, “non è una mancanza di competenze e di capacità tecniche che causa al Sud globale una perdita di entrate, bensì il sistema fiscale internazionale stesso e la ripartizione iniqua dei diritti di imposizione tra il Nord e il Sud inscritta in questo sistema. Il Gruppo Africa e i suoi alleati non si accontentano di un risultato dei negoziati che non sia portatore di una prospettiva di cambiamento radicale del sistema fiscale internazionale”. I paesi del Sud si battono da tempo per abolire il monopolio della gestione della politica fiscale internazionale da parte dell’OCSE, che comprende i paesi più ricchi, e per trasferire le decisioni all’Onu, più inclusivo, che in teoria dovrebbe rappresentare gli interessi di tutti gli stati membri.
E NOI?
Abbiamo iniziato e concluso l’articolo con citazioni dal Sud. Di fronte a queste denunce, come si pone il mondo della cooperazione internazionale ed in particolare quella italiana? Che cosa prevede al proposito il Piano Mattei, che si propone come hub di approvvigionamento energetico per l’intera Europa? È evidente che su questo tema, di dimensione mondiale, un ruolo fondamentale di denuncia, di advocacy e di controllo dovrà essere svolto congiuntamente dalla società civile del Nord e del Sud. Esistono già molte reti tematiche a livello globale, regionale e nazionale (non in Italia, dove rare sono le ONG che si interessano a questa problematica). Per citarne qualcuna, c’è il Global Forum On Illicit Financial Flows and Sustainable Development, che comprende pubblico, privato e società civile, il Tax Justice Network, che, nel 2013, ha creato la Global Alliance for Tax Justice, guidata dal Sud e presente in 28 paesi africani. Si tratta di inserirsi attivamente nel movimento esistente.