Alle Salomon, crocevia di scontri
di Niccolò Rinaldi
Honiara – Si pronuncia Isole Salomone, e si immagina un paradiso tropicale, e si pronuncia Guadalcanal – che è come dire Isole Salomone – e per chi mastica un minimo di storia, s’immagina una delle grandi carneficine nella seconda guerra mondiale. Si chiama “pacifico” questo oceano, ma si dice poco pacifica la storia di questo arcipelago, soprattutto quando ci sono andati di mezzo i colonizzatori di vario tipo.
Già prima dell’arrivo degli europei, la fama di questi indigeni era di cacciatori di teste e di cannibali, eppure Alvaro de Mendana le scoprì neppure trentenne nel 1568 e se ne innamorò, tornò in Perù e dopo oltre vent’anni decise di stabilirsi alle Salomon con un gruppo di coloni. Come la maggior parte di loro, de Mendana non sopravvisse alle febbri tropicali che colpirono gli spagnoli, e il primo tentativo di colonizzazione finì. Negli anni, nei secoli successivi, arrivarono alle Salomon altri spagnoli, inglesi, francesi (tra quali La Perouse, che scomparve nell’arcipelago), missionari cristiani di varie denominazioni – e tutti si trovarono alle prese con una popolazione fiera e indipendente, riottosa e divisa tra gli abitanti della costa e quelli dell’interno, e poi tra quelli delle diverse isole. Solo a fine ‘800 le Salomon divennero una colonia, inizialmente divisa tra Germania e Gran Bretagna, poi solo inglese, ma sempre insofferente e problematica, tra lavoro forzato nelle piantagioni, sanguinose ribellioni, e con le capitali imperiali lontanissime e indifferenti a cosa accadeva “laggiù”.
Premesse secolari alla guerra che invase le Salomon nel 1942: sbarcarono i giapponesi, poi arrivarono gli americani e gli australiani, e fu per due anni una serie di battaglie uniche nella seconda guerra mondiale, perché furono combattute con eguale intensità a terra, in aria e sul mare.
I locali, che si direbbe abbiano sempre avuto qualcosa di guerriero nei propri geni, non stettero a guardare e dettero manforte agli anglo-americani, preferendoli, come un po’ ovunque nel Pacifico, ai giapponesi. Furono circa in 40.000 i soldati a cadere, un centinaio di navi andò a fondo nelle acque delle Salomon, e oltre mille aerei precipitarono in mare o nelle foreste. Il dopoguerra fu forse il periodo più tranquillo di queste turbolente isole, che gli australiani le conoscevano bene e si rifiutarono di includere nei loro possedimenti, e che gli inglesi avevano fretta di sbolognare.
Dal 1978 ad oggi
L’indipendenza arrivò con la gioia di tutti nel 1978, ma le acque non si sono calmate e in forme diverse qui si rimane in un campo di battaglia. Perché le Salomon non hanno sviluppato la vocazione di isolette da cartoline turistica e sono rimaste una terra di lotta, interna ed esterna, che si sente ancora, che si vede, altroché.
Lotta politica con frequenti cambi di governi, presidenti, alleanze; violenze, anche molto dolorose, tra le varie comunità dell’arcipelago, con tanto di intervento della Nuova Zelanda e dell’Australia; intrecci di interessi geostrategici, con la lunga luna di miele con Taiwan per poi passare nel 2019 a un repentino riconoscimento di Pechino, che qui ha cominciato a investire in modo massiccio, non solo con le solite infrastrutture, ma anche con un accordo che permette la presenza della marina militare e dell’esercito cinesi, con conseguente apprensione di Australia, Stati Uniti, Unione europea, che con altri investimenti e altre promesse, cercano di ribaltare il tavolo.
Tante fibrillazioni dunque, che vengono come ricomposte sul molo del porto di Honiara, dove una piazzetta circolare chiama all’appello un po’ tutti: c’è la (piccola) ambasciata americana, con l’aria di baluardo che non osserva gli sviluppi e non molla la presa, e a pochi passi un monumento molto plastico ricorda i soldati alleati e quelli della guardia costiera delle Salomon che lottarono contro i giapponesi. C’è anche un girotondo di bandiere delle isole dell’arcipelago, che per chi conosce la storia di queste terre è più sventolare le differenze che l’unità. Ma ci sono soprattutto loro, questi cittadini che nella piazzetta si fanno la fotografia come se fosse il centro dello Stato, e che a pochi metri aspettano di imbarcarsi sui piccoli bastimenti che la sera partono per le varie isole.
La loro particolare estetica
Sono viaggi che possono durare anche giornate intere, e da Honiara si salpa con ogni genere di pacchi, scatoloni, bagagli, perché dalla capitale si dirama la distribuzione dei pani e dei pesci, tutto arriva da qua. Si sale con calma e ci si accomoda dove si può sul ponte, dormendo in mezzo a gradi imballaggi di ogni cosa: conserve di pomodoro o frigoriferi. Questa non distinzione tra “passeggeri” e “merci” è l’estetica di queste isole, dove anche al bel museo nazionale, che si dispiega in una mezza dozzina di padiglioni di legno, regna la confusione – oltre che lo sporco. Nemmeno in chiesa si trova un punto di ordine, perché la messa avviene con partecipazione di una folla che entra, esce, canta con forza, chiacchiera, e l’assenza di pareti chiuse dell’edificio contribuisce a questa agitazione. C’è una bandiera del Vaticano, ed è il solo elemento di una certa compostezza.
Ritrovo questa “varietà” anche da Lea, che ha un negozio di barbiere dove vado a tagliarmi i capelli. “Barbiere”, ma ci sta un po’ di tutto: abbigliamento, profumeria, artigianato locale. Lea è asiatica, non delle Salomon, dove è arrivata chissà come ma ci ha trovato marito. Ha una personalità forte, è una bella donna, e nessun pelo sulla lingua. Ricorda altri clienti italiani ma si dilunga a parlare male dei cinesi e del presidente che li ha fatti venire. Entrano in competizione anche con la sua attività, nessuno li frequenta, se ne stanno per i fatti loro. Mangiando solo le “cose loro”, “non apprezzano la bontà della cucina delle Salomon”, e “vedremo quanto li faremo restare”. Mi congedo anche da lei pensando che non c’è pace, non c’è ordine, le acque del Pacifico qui bisogna chiamarle in altro modo in attesa del prossimo capitolo.
Tutte le foto dell’articolo sono dell’autore, Niccolò Rinaldi.